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Cuauhtémoc Blanco, tra genio e follia

Un talento burrascoso e impervio come la Sierra Madre messicana, sferzante e generoso, straordinariamente indolente e irrimediabilmente fuori dalle righe. Cuauhtémoc Blanco: dopo di lui, in Messico, il calcio non è stato più lo stesso.

L’Ōita Bank Dome è ancora ebbro della prima esperienza mondiale quando si accinge, nel caldo pomeriggio del 13 giugno 2002, ad ospitare Italia e Messico. L’ultima creazione dell’architetto giapponese Kisho Kurokawa prende il nome di Big Eye a causa del suo tetto retrattile, il cui movimento ricorda quello di un occhio umano. Un gioiello d’Avanguardia, non solo tecnologica, ma anche artistica, essendo lo stadio uno degli esempi più recenti del movimento metabolista nipponico. Gli Azzurri devono fare punti; la Tri, invece, è già certa del passaggio del turno. Non sarà la serata migliore degli uomini di Trapattoni, i quali riescono a trovare gli ottavi di finale solo grazie ad un guizzo di Del Piero al tramonto della partita. I 40.000 spettatori di Ōita e i tifosi italiani conoscono Cuauhtémoc Blanco per la prima volta e non lo dimenticheranno più.

Il soprannome esuberante di Imperatore gli calza a pennello. Se non ha la fascia al braccio è solo perché qualche metro dietro di lui c’è Rafa Marquez, l’unico che possa tenergli testa quanto a carisma. Il Messico è un unico organismo che vive e respira in base a come Blanco gestisce la palla. Quando abbassa i ritmi di gioco, il Messico si limita a contenere con ordine. Quando decide di alzare i giri, il Messico segna. Quella sera Blanco i giri li aumenta più e più volte, come quando decide di porre la palla sulla fronte di Borghetti con un lancio delicatissimo di 20 metri: 1-0 Messico.

Oppure quando crea praticamente dal nulla un gesto tecnico strabiliante davanti agli sguardi attoniti di Zambrotta e Fabio Cannavaro. Rimessa laterale di Morales, i due Azzurri chiudono Blanco verso la bandierina. Mentre Zambrotta tenta l’affondo, il numero 10 serra la palla tra i tacchetti, salta ed evita così marcatura e contrasto. Lo stadio di Ōita esplode, così come le ricerche su Youtube della Cuauhtémiña, l’ultima creazione d’Avanguardia dell’Imperatore. E questo soprannome già appare meno esuberante, se associato ad un trequartista da 300 reti in carriera, uno dei più forti di sempre nella storia delle Americhe.

Un nome del destino

La storia di Cuauhtémoc nasce in un tempo lontano, alle radici stesse della nazione messicana. Cuauhtémoc è composto da due termini: cuauhtli, “aquila”, e temoc, “che scende”. Fu il nome dell’ultimo imperatore azteco, salito al trono nel 1520 in seguito alla morte dello zio Motēcuhzōma II e del suo successore Cuitláhuac. Difese fino all’ultimo Tenochtitlan dalla furia spagnola, arrivando a distruggere tutti i ponti che collegavano la città alla terraferma. Nel 1521 la capitale azteca cadde nelle mani dei conquistadores; Cuauhtémoc venne catturato e visse da prigioniero, anche se in relativa libertà, fino al 1525, quando venne accusato di complottare contro Cortés e giustiziato. La storia avrebbe poi seguito lo stesso corso delle acque “più chiare del cristallo” su cui Tenochtitlan si specchiava. Nel 1973 non c’è più né la capitale azteca, né il lago Texcoco. Al loro posto sorge la caotica Ciudad de México, una delle metropoli più popolose del pianeta.

Nelle strade del barrio di Tepito, uno dei sobborghi più poveri e pericolosi della capitale, Cuauhtémoc Blanco ascolta affascinato i racconti su quell’uomo leggendario, simbolo della cultura messicana, con cui condivide il nome. In quelle stesse vie affina la sua tecnica individuale fuori dal comune e non impiega tanto tempo per farsi notare dai principali club del paese. Il primo a scovarlo è Ángel Coca González, uno degli osservatori del Club América. Nel 1992 Blanco esordice con i giallo-blu, tre anni dopo avrebbe già giocato con la Nazionale. A dispetto del suo nome, la carriera di Blanco è in rapidissima ascesa.

Da icona anarchica a orgullo de pueblo

La strada per consegnare nuovamente a Cuauhtémoc il titolo di Imperatore è ancora lunga e impervia. Il primo soprannome che Blanco si guadagna, infatti, è quello di anarchico del pallone. Fisico taurino, grosso e robusto, collo incavato, sguardo torvo e severo, eternamente fuori forma: gestirlo negli allenamenti è un’impresa. In partita è ancora più indolente, evitando accuratamente di correre e inseguire il pallone. Quando ha la palla, però, non fa mai giocate banali: traiettorie ai limiti della fisica, dribbling ubriacanti, visione di gioco strepitosa, gol e soprattutto assist senza sosta. Si guadagna un posto per i suoi primi Mondiali di Francia ’98. Nella prima partita, 1-3 alla Corea del Sud, Blanco fa un assist e le prime due Cuauhtémiña in mondovisione. Quindi gol del 2-2 in spaccata contro il Belgio e un altro assist nella sconfitta agli ottavi contro la Germania. L’Europa inizia ad osservarlo da vicino.

Tra il 1998 e il 2000 Blanco vive il periodo migliore della sua carriera. In patria fa 51 gol e quasi altrettanti assist in 67 partite. La sua Confederations Cup 1999 – sua poiché la sede designata è proprio il Messico – comincia con una tripletta all’esordio contro l’Arabia Saudita, quindi gli regala la gioia di un gol ai supplementari in semifinale contro gli Stati Uniti e l’accesso alla finale contro il Brasile. Davanti a 110.000 spettatori dell’Azteca, il Messico gioca una delle partite più belle della propria storia. Si porta sul 2-0, viene rimontato sul 2-2, passa nuovamente in vantaggio di altri due reti e non si fa riprendere più. Finisce 4-3: primo trofeo ufficiale del Messico e rete decisiva di Blanco contro i futuri campioni del mondo, peraltro davanti alla sua gente. Finalmente Cuauhtémoc può assaporare cosa voglia dire essere un orgullo de pueblo.

Il destino di Blanco è in patria

Un anno prima, sul prato verde dell’Azteca, Blanco aveva raggiunto l’apice della sua carriera. L’anno seguente lo stadio di Città del Messico sarà teatro del suo giorno più buio. Nel match di qualificazione ai Mondiali del 2002 contro Trinidad & Tobago, il numero 10 si rompe la tibia in uno scontro con Ancil Elcock. Un mese e mezzo prima il Valladolid aveva ufficializzato l’acquisto del fantasista messicano. La Liga ammirerà le sue gesta in 23 occasioni tra il 2000 e il 2002, mentre gli infortuni non avrebbero più smesso di tormentarlo.

Nonostante ciò, Blanco lascerà un bel ricordo ai tifosi albivioletas, i quali ancora non dimenticano un suo splendido gol su punizione contro il Real Madrid il 29 settembre 2001. L’ex presidente del club, Carlos Suárez, ha raccontato di come un giorno Blanco rischiò di annegare in piscina poiché, pur non sapendo nuotare, voleva finire la riabilitazione e tornare in campo quanto prima.

Pochi lampi in Europa, ma di livello assoluto

Dopo due anni, Blanco saluta la Spagna e riabbraccia il Club América. Rischia di non essere convocato fino all’ultimo, ma, alla fine, riesce a ritagliarsi un posto per i Mondiali del 2002. All’esordio ridicolizza a più riprese la difesa della Croazia, limitandosi a segnare solo su calcio di rigore al minuto 60. Quindi è il turno dell’Ecuador, battuto per 2-1, e dell’Italia, fermata sul pari. Blanco dà spettacolo e sembra tornato quello di tre anni prima: se il Messico passa come prima classificata agli ottavi di finale, molto lo deve al suo numero 10. Nella partita successiva arrivano gli Stati Uniti d’America, che vincono 2-0 e mandano a casa i messicani in preda allo sconforto. Appuntamento al 2006, in Germania, ma i ragazzi del Tri sanno che hanno perso una ghiotta occasione. Blanco lo sa più di tutti.

Le follie dell’Imperatore

Dopo l’esperienza nippo-coreana, Blanco avrebbe abbinato alle sue giocate magistrali dei comportamenti fuori dalle righe. Negli ottavi della Copa Libertadores del 2004 rifila una gomitata in pieno volto ad Anderson Lima, giocatore del São Caetano. In virtù della sconfitta per 2-1 all’andata, il Club América viene eliminato. Tale è il nervosismo e la frustrazione che Blanco, pur essendo stato espulso, torna in campo e dà il via ad un’enorme rissa tra staff e giocatori delle due squadre, venendo dunque squalificato per un anno da qualsiasi competizione internazionale.

Durante una partita di campionato, invece, ha un dibattito dall’elevato spessore culturale con Virginia Tovor, la prima guardalinee della massima serie messicana: in maniera poco velata le dà della donna dai facili costumi e le urla “Ponete a lavar platos” (Vai a lavare i piatti). Ne ha anche per Rafa Marquez, altra istituzione in Messico, ma negli spogliatoi, dal punto di vista di Blanco, semplicemente un “hombre sin cojones”.

Anche le sue esultanze diventano particolarmente esuberanti. Sbeffeggiato in campionato da un portiere messicano, tale David Grosso, decide di vendicarsi dedicandogli un’esultanza provocatoria per ogni gol realizzato. In quell’occasione andrà a segno tre volte. Anche con Hernández, il portiere dell’Atlas, non si trattiene. Prima le minacce (“Spera che non ti segni, altrimenti la tua carriera sarà macchiata per sempre”), quindi gol su calcio di rigore ed esultanza a quattro zampe, con una gamba alzata, vicino all’estremo difensore. Sempre contro l’Atlas sfoggerà una delle sue esultanze più iconiche, sdraiandosi di fronte all’allenatore della squadra avversaria, guardandolo in maniera sardonica e sogghignando.

Bersaglio dell’esultanza umiliante è Ricardo La Volpe, allenatore del Messico tra il 2002 e il 2006. Prima del Mondiale in Germania, La Volpe aveva sollevato dei dubbi sulla condizione atletica di Blanco, invitandolo a prendersi un periodo di pausa dalla nazionale. Il campione messicano ha risposto per le rime, tirando in ballo sia il CT che il suo vice Campos, altro nome piuttosto importante da quelle parti. La Volpe gli preclude il quarto Mondiale consecutivo e lo taglia dalla nazionale, commentando laconico: “Si hablo, lo entierro” (Se parlo, lo seppellisco). L’esclusione di Blanco genererà quasi una sommossa popolare, con migliaia di tifosi che si sono riversati allo stadio Azteca e alla sede della Federazione per protestare.

Sedetevi e godetevi lo spettacolo…

Non convenzionale fino alla fine

Io non sono cambiato
Il cuore ed i pensieri son gli stessi
Sul tappeto magnifico dei versi
Vorrei dirvi qualcosa che vi tocchi.

Sergej Yesenin, Confessioni di un teppista

Dopo una parentesi americana con il Chicago Fire, Blanco riesce a partecipare al suo quarto Mondiale nel 2010 e segna su rigore il gol del 2-0 contro la Francia, a 37 anni e 6 mesi precisi. Quindi decide di ritirarsi e tenta la carriera da attore. Se oggi in Messico è possibile trovare sia la Pepsi che la Pecsi, il merito è di un suo errore di pronuncia in uno spot pubblicitario. Del resto, come afferma lui stesso in un’altra pubblicità, “Se dici Pecsi è come dire Pepsi”. Poi ci ripensa e a 41 anni torna al calcio giocato, non prima di aver dato addio alla nazionale definitivamente nel 2014, in una partita infuocata, al grido di “¡Viva México, cabrones!” (Lunga vita al Messico, bastardi!).

In lui crede il Puebla, con cui, per esempio, realizza una doppietta contro il Santos Laguna, da subentrato, completando la rimonta della sua squadra. E sarà la conquista della Coppa del Messico, vinta per 4-2 ai danni del Chivas Guadalajara, a rendere più dolce il suo definitivo ritiro dal mondo del calcio. Ritiro che avverrà, però, con la maglia del Club América, quella che ha più amato dopo la casacca dellanazionale. Nel 2016 disputerà il match di Clausura contro il Monarcas Monelia indossando il numero 100 in occasione del centenario dalla fondazione del club. La sua partita sarebbe durata 36 minuti, il giro di campo successivo e l’affetto dei tifosi presenti molto di più.

Anche questo spot per la Budweiser è geniale

Oggi Blanco non ha più a che fare con il mondo del calcio. Nel 2018 ha vinto le elezioni per divenire sindaco dello stato del Morelos. Oltre che sui campi da calcio, ha deciso di servire la sua nazione anche in vesti istituzionali, secondo la tradizione del nome Cuauhtémoc. E chissà che la storia di questo incredibile calciatore, eternamente sospeso sul labile filo che divide il genio e la follia, tra uscite e giocate fuori dalle righe, non si possa arricchire di ulteriori, gloriosi capitoli.


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Foto di copertina tratta da: These Football Times

Di Matteo Cipollone

Sempre alla ricerca di una storia particolare da raccontare, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Amo studiare storia e rimango affascinato da quello che essa ci offre. Accumulo libri e talvolta li leggo pure. Unisco due belle passioni: il calcio e la scrittura.

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