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Tutti hanno visto giocare El Trinche Carlovich

Se il fato, generoso, tende a donare un ruolo speciale ad alcuni luoghi e persone nel corso della storia, Tomás El Trinche Carlovich era il più privilegiato di tutti nella città più privilegiata del calcio.

Henri Lefebvre era un indefesso saggista e pensatore marxista. La sua produzione si dilunga per l’intero XX secolo, abbraccia numerose giovani discipline, riempie gli spazi vuoti e traccia il sentiero per le generazioni future di studiosi. Una dottrina, in particolare, deve tanto all’intellettuale francese: la geografia culturale. Lefebvre, nella sua “Teoria critica dello spazio”, pone una focale differenza tra i concetti di spazio e luogo. Il primo è vuota astrazione, aperto e distaccato emotivamente; il secondo è imbevuto di significati culturali, intimo ed umanizzato. Nello spazio si viaggia, nel luogo si vive la propria vita quotidiana. Spazio, per esempio, è quello che Tomás Felipe Carlovich riempiva quando giocava nella zona centrale del campo, con quel piede sinistro che fece illustri proseliti tra altri mancini, come César Menotti o Diego Armando Maradona. Luogo, invece, era quella Rosario che tanto amava e che mai avrebbe abbandonato, fino alla fine.

Rosario, la culla del Trinche

La città di Rosario è nota come la Cuna de la Bandiera, “la culla della Bandiera”. Entro i suoi confini il 27 febbraio 1812, per la prima volta nella storia, sventolò la bandiera argentina. Tre bande uguali, due azzurre ed una bianca, centrale, e il Sol de Mayo nel mezzo di quest’ultima. Molto probabilmente si tratterà di semplici coincidenze, oppure è tutto frutto di un disegno che non si può comprendere, eppure la storia ha stabilito che Rosario dovesse essere la culla di alcuni dei più importanti personaggi argentini. Qui vi mosse i primi passi come portiere Ernesto “Che” Guevara, prima di abbracciare l’ideale rivoluzionario. Qui sono nati César Menotti, El Loco Bielsa, Ángel Di María e Lionel Messi. E sempre Rosario ha dato i natali a Carlovich, il calciatore più privilegiato nella città più privilegiata d’Argentina, l’uomo che ispirò Maradona, El Diez con la numero 10.

Di Carlovich si è scritto tanto, ma si conosce poco. Non si sa come e quando nacque il suo soprannome, El Trinche. Probabilmente gli venne affibbiato quando aveva quattro anni da un suo vicino di casa. Non si sa neanche quando abbia cominciato a giocare a pallone per le strade del Barrio General San Martín, dove nacque il 19 aprile 1946, settimo e ultimo figlio di Mario Carlovich, idraulico di origine croate. La leggenda vuole che abbia cominciato ad inseguire il pallone non appena ebbe imparato a camminare. Quel che è certo è che l’amore per la sua culla era così viscerale che né la sfera di cuoio, né la camiseta albiceleste riuscirono mai a superarlo. Solo per un anno, al tramonto della sua carriera, abbandonò Rosario. Non solo pretese di tornarvi comunque una volta a settimana, ma in una partita si fece espellere nel primo tempo pur di non perdere il treno.

Come si forgia un mito

Una partita a Montevideo, contro il Peñarol, ed una contro il Los Andes: questa è stata la carriera di Carlovich con un club di Primera Division, il Rosario Central. L’allenatore, Miguel Ignomiriello, non aveva in simpatia quel giovane sì talentuoso, ma completamente svogliato in allenamento e indisciplinato tatticamente. Flandria, Independiente Rivadavia, Central Córdoba de Rosario, Colón de Santa Fe, Deportivo Maipù: una carriera vissuta completamente all’ombra della seconda e terza serie, ma sufficientemente interessante da convincere Bielsa ad andare a guardare le sue partite per due anni. José Pekerman lo considera “il calciatore più brillante che abbia mai visto”, mentre Jorge Valdano lo ha incoronato come massimo rappresentante “di un’idea romantica di calcio che non esiste più”. Quando un giornalista gli disse che la città era orgogliosa di accogliere il più forte giocatore del mondo, Maradona, appena arrivato al Newell’s Old Boys, rispose che “il migliore è già stato a Rosario ed è Tomás Felipe Carlovich detto El Trinche”.

“Semplicemente, il calcio professionistico ad alti livelli lo annoiava e preferiva giocare a modo suo e dove voleva lui”.

César Menotti, altro illustre rosarino

Si racconta che durante una partita abbia tenuto palla addirittura per 10 minuti consecutivi: un record incredibile, interrotto senza troppi fronzoli da un brutale intervento di un difensore avversario, immediatamente espulso. In un altro match, invece, decise di colpire il pallone solamente di tacco per tutti i 90 minuti. Un’altra volta, mentre giocava per il Central Córdoba, l’arbitro decise di espellerlo. I tifosi, però, protestarono così animatamente che il direttore di gara fu costretto a tornare sui suoi passi e a richiamare Carlovich in campo. Oltre a lui, solo Pelé avrebbe avuto tale privilegio in tutta la storia del calcio. Quel Pelé che aveva vinto tre Coppe del Mondo e che fece grandi pressioni per averlo come compagno nei New York Cosmos. Alla fine la trattativa naufragò: del resto nessuna offerta per il Trinche era sufficientemente buona da costringerlo ad abbandonare Rosario e la sua gente.

“I più bei regali che il calcio mi abbia dato sono il Central Córdoba e l’Independiente Rivadavia. Io li definirei i due amori della mia vita. In entrambe le squadre ho giocato i migliori anni della mia carriera”.

Il massimo esponente dell’arco lirico del calcio argentino

“Tuvo su estilo: era un volante central elegante, virtuoso y algo displicente. De ritmo lento, pero de razonamiento inversamente proporcional a su andar. […] Carlovich es algo así como el máximo exponente del arco lírico del fútbol argentino”.

Aveva uno stile tutto suo: era un volante centrale elegante, virtuoso e un po’ compiacente. Il suo ritmo di gioco era lento, ma aveva un ingegno inversamente proporzionale alla sua andatura. […] Carlovich è un po’ come il massimo esponente dell’arco lirico del calcio argentino.

El Gráfico, 21 gennaio 2018

Amante della storia, appassionato di arte e di musica, Carlovich era destinato fin da subito a far parte dell’Olimpo del pueblo. Era ribelle in tutto e per tutto. La sua aria da bohémien contrastava con un calcio che iniziava ad aprirsi ai dettami europei. Il suo stile di gioco trascendeva la dittatura dell’atletismo: era metafisico, quasi introverso e riservato. Seguiva solamente dei ritmi calmi e compassati, riflessi della sua indole. Il suo gioco era cadenzato, a tratti oracolare e barocco. L’orpello è legge, il ricamo necessità, il tunnel la giusta fine del valzer con il cuoio, ogni giocata un esercizio di aristocratica raffinatezza.

Questo è lo stile di alcuni giocatori di Rosario, quelli che vengono dal potrero, il campo sterrato tipico dei sobborghi della periferia, la calle. Sono giocatori che segnano poco – Carlovich ha realizzato una rete in media ogni 10 partite – perché il loro scopo è un altro: quello di dribblare, di dar sfogo alla propria creatività. Perché il campo è una tela da dipingere, la palla una compagna da sfiorare con delicatezza, la partita uno spettacolo da dirigere. Perché il calcio è divertimento e anarchia, è il dominio della tecnica e della mente. Il fatto che non esistano quasi prove visive di una sua partita non può che alimentare a dismisura il mito. Si dice che fosse pagato a tunnel. Una volta la tifoseria gli chiese di farne uno doppio: nacque in questa maniera il doble caño, un tunnel ripetuto due volte in brevissimo tempo, il suo marchio di fabbrica insieme ai rigori senza rincorsa.

A chi mi domanda perché non sono arrivato ad alti livelli, chiedo: cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario.

Tomás Felipe Carlovich

Carlovich e la Nazionale argentina

Il 17 aprile 1974 Vladislao Cap, commissario tecnico dell’Argentina, decide di organizzare un’amichevole a Rosario prima del Mondiale in Germania Ovest. Biasutto; Jorge González, Pavoni, Capurro, Mario Killer; Aimar, Carlovich, Zanabria; Robles, Obberti e Mario Kempes: questa è la formazione della selezione rosarina. Cinque di loro vengono dal Newell’s Old Boys di Juan Carlos Montes, altri cinque, invece, dal Rosario Central allenato da Carlos Timoteo Griguol. Infine, un giocatore entrato in rosa per il rotto della cuffia, il numero 5 del Central Córdoba, club di Primera B: Carlovich. Sarà proprio El Trinche a creare maggior scompiglio contro i più forti giocatori della nazione. Dopo 45 minuti la selezione cittadina è avanti di 3 reti. Un imbarazzato Cap esige dai due allenatori di Rosario che quel numero 5 che aveva ridicolizzato per un tempo l’Argentina davanti a 35.000 spettatori venisse sostituito. Un giocatore della seconda divisione aveva dominato i migliori calciatori del paese.

Tra gli spettatori di quella famosa partita al Newell’s Stadium c’era anche César Menotti, scelto come CT della nazionale dopo il deludente Weltmeisterschaft del 1974. Menotti rimase abbagliato dalle abilità del cinco del Central Córdoba. Nel 1976 Carlovich era nel momento migliore della sua carriera: aveva addirittura battuto il Milan per 4-1 in amichevole. Menotti lo vuole ai Mondiali del 1978. L’Albiceleste avrebbe vinto quell’edizione grazie ai gol di Mario Kempes, uno dei tre marcatori della squadra di Rosario nel 1974. In rosa c’era anche il giovanissimo Diego Armando Maradona, ma non El Trinche. Carlovich aveva risposto alla chiamata di Menotti, si era messo in viaggio per raggiungere il ritiro a Buenos Aires, ma poi a metà strada si era fermato. C’era un bel laghetto, il tempo era quello ideale per pescare. In fondo, non gli serviva davvero giocare con la nazionale.

“Non ricordo che mi abbiano convocato. Ma se lo dice Menotti, potrebbe essere…”

Che la storia del laghetto sia l’ennesima leggenda?

Maradona e Carlovich per sempre legati

Maradona e Carlovich sono sempre stati legati fra di loro. L’uno ha ispirato l’altro. L’uno era il migliore di tutti i tempi, il secondo era l’altro Maradona, pur avendo rifiutato questo paragone. Si sono sempre rincorsi e mai sono riusciti ad incontrarsi, fino al febbraio 2020, un anno che avrebbe significato troppo per entrambi e per l’Argentina intera. Carlovich si è ritirato nel 1986 e da allora si gode la vita con le sue più grandi passioni – la pesca, il riposo e la città di Rosario – e il suo più grande desiderio, poter tornare a giocare a pallone per altri 10 minuti. Maradona lo accoglie gridando: “Trinche, la concha de tu madre…”. Quindi lo abbraccia e, avvicinandosi al suo orecchio, ribadisce nuovamente che lui era il più forte giocatore che avesse mai giocato a Rosario.

“Mi ha autografato una maglia e scrisse: «Trinche, sei stato migliore di me». L’unica risposta che ho potuto dire è stata: «Diego, ora posso lasciare questo mondo in pace. Sei stato il più grande che abbia mai visto nella mia vita». […] Avrei dato la vita per condividere il campo con Diego almeno una volta. Se a un certo punto della mia carriera mi avessero detto «Trinche, giocherai con Diego per 45 minuti», avrei accettato e firmato subito. È il sogno della mia vita!”

Tomás Felipe Carlovich

È il 7 maggio 2020. Carlovich esce di casa e s’immerge nella folla del Barrio 7 de Septiembre, come ha sempre fatto da quando aveva appeso gli scarpini al chiodo. Passeggia in bicicletta, come ha sempre fatto nel corso della sua vita, nella zona ovest di Rosario. La chioma scura ha perso splendore, ma la gente lo riconosce ancora. I più giovani lo salutano con affetto, i più anziani con devozione. All’improvviso, però, un ragazzo sbuca dal nulla, vuole la sua bicicletta. Gli ruba il mezzo, mentre El Trinche cade e sbatte violentemente la testa. Viene ricoverato subito, è in coma indotto per le gravissime lesioni al capo. Dopo la corsa dei sanitari, l’apprensione di un’intera città si spegne il giorno dopo, l’8 maggio 2020. El Trinche è spirato. Qualche mese più tardi, il 25 novembre, sarebbe toccato anche a Maradona.

“Esta noche juega el Trinche” appariva nei botteghini in città, prima che il prezzo dei biglietti aumentasse perché lui era in campo. Da quell’8 maggio non più. El Trinche, il calciatore del mito, l’uomo che preferiva il pallone al denaro, colui che non voleva essere l’altro Maradona, era entrato definitivamente nella leggenda. Non ci sono partite da raccontare né trofei da celebrare, El Trinche Carlovich non era nulla di tutto questo. È l’eroe popolare che tutti abbiamo sognato di diventare, un nome che ci ricorda quel fremito primordiale dell’animo che il gioco del pallone risveglia. La stessa sensazione che la sfera di cuoio dava al più grande numero cinco della storia di Rosario. El Trinche Carlovich, l’uomo più privilegiato nella città più privilegiata, il calciatore che tutti hanno visto giocare, l’uomo che non è mai arrivato ma che ce l’aveva fatta, perché voleva solo giocare a calcio.


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Fonte immagine di copertina: El Gráfico

Di Matteo Cipollone

Sempre alla ricerca di una storia particolare da raccontare, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Amo studiare storia e rimango affascinato da quello che essa ci offre. Accumulo libri e talvolta li leggo pure. Unisco due belle passioni: il calcio e la scrittura.

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