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Intervista a… Enzo Palladini

Dopo Roberto Beccantini, vi proponiamo gli interessanti punti di vista sul calcio mondiale di Enzo Palladini, fine penna di Sport Mediaset e del Guerin Sportivo.

Enzo Palladini è una sicurezza per gli amanti della bella scrittura e insieme dell’aneddoto. Leggendolo, possiamo notare un certo grado di conoscenza del tema fùtbol nei suoi più piccoli particolari. Autore di libri come “Scusa se ti chiamo Futèbol“, “Dimmi chi era Recoba“, “O Zico o Austria” e “Paura del buio. Biografia non autorizzata di Ronaldo“, per il quale Palladini prova una profonda ammirazione che ben noterete in quest’intervista.

Quali sono le nazionali che hanno ottenuto maggiori progressi? 

Paradossalmente, l’Italia della gestione Mancini è una delle squadre che hanno fatto un salto di qualità nell’ultimo periodo, se consideriamo la sventurata gestione Ventura e i due disastri dei Mondiali di Brasile e Sudafrica. È chiaro che tuti noi consideriamo la squadra azzurra una delle grandi tradizionali, ma dopo il 2006 non è mai stato veramente così. Tra le europee, considerando la Croazia e il Belgio come delle realtà ampiamente consolidate, nel periodo pre-lockdown si sono visti progressi importanti in squadre come la Finlandia, che non è mai stata inseribile tra le avanguardie calcistiche mondiali, e soprattutto l’Austria, che arriva da un lungo periodo di depressione ma anche a livello di club sta ritrovando antichi valori. Nel resto del mondo al momento non si notano grandi scalate.

Cosa pensa dell’attuale condizione dell’eterna promessa che è il calcio africano?

Il pericolo è che tra altri vent’anni ci rifaremo la stessa domanda riutiizzando la stessa espressione “eterna promessa”. Nel 1995 in un’intervista per il Corriere dello Sport-Stadio, Ottavio Bianchi mi disse: “Il prossimo Pelè nascerà in Africa, il futuro è loro”. Sono passati 26 anni ma la situazione non è troppo cambiata. L’Africa è uno straordinario serbatoio di atleti con doti superiori alla media, calcio compreso, ma l’impressione è che non riesca a scrollarsi di dosso tutto quel contorno di faccendieri e trafficoni che non hanno mai lasciato crescere quel mondo così affascinante. Finchè ci sarà gente che cercherà facili guadagni alle spalle dei ragazzi africani, sarà difficile un salto di qualità definitivo.

A  parte le solite Olanda ’74, Ungheria ’54, Brasile ’82, quali sono le nazionali che la hanno impressionata maggiormente senza vincere un Mondiale?

Nel 1990 c’era una straordinaria Jugoslavia (ultima sua apparizione da nazione unita in una grande manifestazione), ricchissima di talento, che dovette fermarsi ai quarti di finale. Nel 1994 la Bulgaria di Stoichkov giocava un calcio ruvido ma eroico che dovette arrendersi in semifinale all’Italia. Il Brasile del 1998 non avrebbe mai perso contro la Francia se avesse avuto un Ronaldo in condizioni decenti. L’Australia del 2006 se non avesse avuto un rigore molto dubbio quasi a tempo scaduto contro l’Italia rischiava di andare avanti grazie alla sua potenza atletica. E il Belgio del 2018 con Roberto Martinez in panchina non era inferiore a Francia e Croazia dal punto di vista tecnico.

Si è fatto un’idea sul nuovo corso del Manchester United?

Per poter tornare ai massimi livelli dovrebbe individuare un condottiero capace di dare una svolta radicale. Non che Solskjaer non sia bravo, però è un manager di tipo troppo classico per le abitudini del calcio inglese. Il Liverpool ha riscritto la storia affidandosi al genio di Jurgen Klopp, il Manchester City ha dato la chiavi in mano all’allenatore più allenatore che ci sia, il Chelsea ha vinto un titolo con Conte e un’Europa League con Sarri. Per tornare ai livelli che merita, lo United dovrebbe piazzare l’uomo giusto in panchina ma i fenomeni in circolazione non sono molti.

Palladini, lei è un grande esperto. Ci sapresti indicare cinque prospetti interessanti per ogni continente?

Escludendo quelli già arcinoti, in Europa sono in fase di grande crescita Trincao dello Sporting Braga, Parrott del Tottenham, Camavinga del Rennes, Fabio Silva del Porto e Karpov del Cska Mosca, oltre allo stranoto Ansu Fati del Barcellona. In Sudamerica, Kaio Jorge del Santos, Lincoln del Flamengo, Joao Pedro del Watford, Martinelli dell’Arsenal e Gaich del San Lorenzo.

In Africa si può azzardare Muleka del Mazembe, Samuel Chukwueze del Villarreal, Olakunle Olusegun dell’ABS, Pape Sarr della Generation Foot, Steve Mvoué dell’AS Azur Star de Yaoundé.

In Asia Jun Nishikawa del Cerezo Osaka, Yamato Wakatsuki del Sion, Yoon Seok-joo dell’FC Pohang Steelers, Jae-hyeok Oh pure lui del FC Pohang Steelers, Ji-seong Um del Gwangju FC.

In Oceania Tristan Hammond dello Sporting Lisbona, Noah Botic dell’Hoffenheim, Caleb Watts del Southampton, Ryan Teague del Famalicao e Matthew Garbett del Falkenbergs.

Nell’America centro-settentrionale Jayden Nelson del Toronto FC, Giovanni Reyna del Borussia Dortmund, Adam Saldana dei Los Angeles Galaxy, Eugenio Pizzuto del Pachuca e Jesus Gomez dell’Atlas Guadalajara.

Perché noi europei snobbiamo il confronto con il calcio sudamericano? 

Sono due mondi completamente diversi, difficilmente accostabili. Diversi i metodi di lavoro, diversi i climi, diversa la filosofia del gioco e dei giocatori. A livello di club è impossibile immaginare una competizione in cui i due Continenti possano presentarsi alla pari per mille ragioni, a livello di Nazionali è giusto che siano i Mondiali ad attribuire la supremazia.

Quali sono le partite, seguite da inviato, che hanno emozionato di più Enzo Palladini ?

Sicuramente più di tutte Milan-Steaua, finale della Coppa dei Campioni 1989, per il clima in cui si svolse, per l’eccitazione dei ventiquattro anni, perché era il primo servizio importante da inviato per il Corriere dello Sport. Subito dopo la finale della Coppa Uefa del 1998 a Parigi, vinta per 3-0 dall’Inter sulla Lazio. Anche lì per il contorno, perché era Parigi, perché era un momento particolare, perché in campo c’era Ronaldo. Poi tutte le nove partite seguite al Mondiale del 1990, anche se nessuna dell’Italia. Perché quel Mondiale di Italia ’90 era davvero qualcosa di speciale.

Lei crede che la Libertadores abbia perso parte del proprio fascino con la finale in gara secca? 

La finale secca è sempre al soluzione migliore nel calcio, almeno dal punto di vista sportivo. Ci si gioca tutto in una notte, entro o fuori, vita o morte. Forse in Sudamerica non ci erano abituati, ma questa soluzione può solamente giovare a quella manifestazione.

Che dire, mai banale, il signor Enzo Palladini, una vita da inviato sui campi di tutto il mondo.

Intervista a cura di Luigi Della Penna. Si prega gentilmente di citare Sottoporta in ogni riproduzione su altre parti.


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Fonte foto di copertina: pagina Facebook di Enzo Palladini

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