Emilio De Leo, giovane e preparato tecnico della selezione maggiore maltese, parla della sua esperienza da allenatore, delle istantanee che ha raccolto nel corso della sua carriera sportiva e della sua filosofia di vita, tra flessibilità, fuoco e bellezza.
Poche persone all’interno del mondo del calcio italiano possono incarnare il valore della gavetta come Emilio De Leo. Nato a Napoli nel 1978 ma cresciuto a Cava de’ Tirreni, ha iniziato ad allenare rappresentative giovanili e scolastiche agli inizi degli anni 2000. Si è poi ritrovato, pochi mesi fa, ad assumere il comando della nazionale di Malta, in qualità di commissario tecnico ma anche di direttore tecnico del sistema federale del calcio dell’isola del Mar Mediterraneo. In mezzo, una serie di esperienze prima con la sua Cavese e poi, dopo essersi fatto conoscere in certi ambienti tramite dei video tattici pubblicati su YouTube, da assistente di Sinisa Mihajlović.
Quest’ultimo si avvarrà della sua preziosa collaborazione sulle panchine di Serbia, Sampdoria, Milan, Torino e Bologna. Lo abbiamo intervistato qui su Sottoporta, dove ci ha raccontato delle sue prime impressioni maltesi ma anche del lungo percorso che ha intrapreso negli ultimi venti e più anni.
Come è arrivato Emilio De Leo a Malta
Partiamo dalla tua nuova esperienza a Malta: come è arrivata la chiamata della Federazione e cosa ti ha spinto ad accettare?
Mi avevano chiamato già tempo addietro, quando avevo finito l’annata a Bologna. Ci sono stati dei contatti e ci siamo conosciuti con il management, ma in realtà sostanzialmente non si è mai andati oltre. Innanzitutto perché avevo finito da poco l’esperienza al Bologna. Poi ero lontano da casa da tanti anni, quindi non mi andava granché di ripartire. Vivevo anche una situazione particolare con la mia compagna, tra la gravidanza e un po’ di problemi vari. Per fortuna alla fine l’anno scorso è nata la nostra bimba. Poi c’era Sinisa che in quel periodo comunque non stava bene, ero ancora sotto contratto con il Bologna e stavo iniziando il corso UEFA Pro… Diciamo che era un periodo in cui non avevo esigenza di portare avanti questo tipo di trattative, per quanto fossi comunque contento che si fosse presentata questa opportunità.
Abbiamo mantenuto un rapporto di stima reciproca finché a settembre dell’anno scorso è stato esonerato Marcolini. La Federazione maltese ha iniziato a cercare un nuovo allenatore perché voleva iniziare un nuovo ciclo da gennaio di quest’anno. Così si sono messi di nuovo in contatto con me. Ci siamo incontrati un paio di volte, sia in chiamata sia dal vivo a Malta, e poi si è stretta la relazione con Emilio De Leo uomo e allenatore. C’erano delle buone premesse sia da un punto di vista lavorativo sia contrattuale, perché era un periodo lungo di lavoro, e così siamo partiti.
L’inizio di Emilio Di Leo
Come è stato il primo impatto nell’isola tra gennaio e febbraio?
L’impatto iniziale è stato ottimo. Da un punto di vista logistico, geografico, ambientale, etc… ci sono state da subito delle vibrazioni positive. Io sono comunque un ragazzo del Sud, mi attraggono il mare e il bel clima, Malta mi è sembrata subito particolarmente affine ai miei gusti. Poi sicuramente c’è un discorso di responsabilità: l’incarico mi inorgogliva e mi lusingava, da una parte, però dall’altra parte avevo comunque un po’ di timore: non rappresenti una squadra, ma un’intera nazione. Un CT rappresenta un movimento, ha una struttura federale piena di uffici, dipendenti, strutture… Essere a capo di tutto ciò dà soddisfazione, ma mette anche una pressione e infonde un senso di responsabilità incredibili.
Il primo step, come ho detto sempre, è stato quello di conoscere il contesto. Ho cercato di osservare e di ascoltare, mi sono espresso e sbilanciato poco, cercavo di capire le dinamiche, le relazioni, le abitudini, come faccio anche adesso. Questa secondo me è la cosa più importante: nel momento in cui devi entrare in azione, devi farlo con cognizione di causa e sapendo quali sono i tasti che devi toccare.
Ho iniziato a incontrare praticamente tutti i giocatori potenzialmente convocabili: fate conto che avrò incontrato all’inizio una cinquantina di calciatori con colloqui individuali. La media era di un’oretta a colloquio, quindi avrò fatto 50-60 ore di incontri conoscitivi per capire la motivazione di ciascuno di loro, quello che li rendeva felici, quello che li emozionava. Ho cercato di conoscere il contesto e gli individui, comprendere prima le relazioni, il sottaciuto, cosa avrebbe potuto scuoterli, cosa avrebbe potuto renderli soddisfatti. Quando è arrivato il momento di diramare le convocazioni durante il primo periodo della finestra internazionale, avevamo le idee chiare.
Gli obiettivi di Malta per Emilio De Leo
Soddisfatto, quindi mister Emilio De Leo? Anzi, commissario tecnico Emilio De Leo…
Sinceramente credo siamo stati molto efficaci nella proposta di gioco e in tutto quello che abbiamo fatto, al di là del fatto che, purtroppo, non siamo riusciti a ottenere risultati positivi. Sì, secondo me abbiamo fatto due ottime partite. Soprattutto, si è creato un bel clima da subito sul lati tecnico-tattico e motivazionale, nonché una bella sinergia con il pubblico. Dopo aver conosciuto per bene il contesto avevo le idee più chiare su come impostare il lavoro tecnico, che alla fine è ciò che abbiamo mostrato nelle due gare disputate.
Quali sono gli obiettivi che la Federazione ha posto ad Emilio De Leo nell’arco dei suoi quattro anni di contratto?
Sicuramente un obiettivo a lungo termine riguarda il miglioramento del movimento calcistico locale. Puntiamo a creare una metodologia standard, a stimolare i giocatori ad essere sempre più coraggiosi e intraprendenti, cercando essere il più possibile propositivi. Ma sarà importante anche la formazione dei tecnici e di professionisti maltesi. In qualche modo questo fattore stimolerà una crescita esponenziale e contribuirà a dare sempre più un respiro ampio e internazionale a questo tipo di calcio e di movimento. Questo è il traguardo un po’ più nobile e a lungo termine che dobbiamo perseguire.
Poi chiaramente nel breve termine l’obiettivo è migliorare il ranking internazionale, sia per quanto riguarda la Nazionale maggiore, sia per quanto riguarda le altre selezioni. C’è poi la volontà di provare a raggiungere la Lega C di Nations League, visto che Malta in questo momento si trova nella Lega D. Come dico sempre, poi, è la Federazione che dà gli obiettivi e sta a me individuare in che modo raggiungerli.
A livello personale, invece, Emilio De Leo quali ritiene che siano i suoi obiettivi?
Sono concentrato a capire in che modo raggiungere gli obiettivi della Federazione. Sicuramente deve rispettare la mia natura, che è quella di essere creativo e di voler sperimentare. Creativo in termini di modello di gioco, di proposta, nelle sedute di allenamento. Sicuramente deve essere variegato, mai banale e coinvolgente.
Nello specifico, poi, sicuramente deve basarsi su un approccio propositivo. Si deve puntare a vincere ogni partita senza essere mai remissivi, ricordando sempre che i nostri risultati dipendono solo ed esclusivamente da noi. Ai miei giocatori parlo sempre di un concetto che è quello dell’internability, che è una cosa diversa dall’externability: tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno lo abbiamo dentro. Non bisogna farsi condizionare da difficoltà e differenze oggettive che sono esterne a noi stessi.
Ti sei fatto già un’idea sul livello complessivo dei giocatori maltesi e sui margini di miglioramento? C’è qualche talento da seguire con attenzione che potrebbe presto emergere nei campionati maggiori?
Sì. Non voglio farti magari dei nomi precisi, ma ad esempio ho convocato due ragazzi in prima squadra per la finestra internazionale, a testimonianza, secondo me, del buon lavoro che è svolto quotidianamente dalle Nazionali Under. Uno è un portiere che si chiama James Sissons: era in Under-17, ma è venuto subito da noi. L’altro giocatore si chiama Jake Azzopardi, anche lui nel giro dell’Under-17 e che addirittura milita in Serie B. Li ho convocati subito perché secondo me sono dei ragazzi molto validi.
Poi va detta una cosa: i giovanissimi, diciamo fino all’Under-19, si allenano tre volte a settimana con la Federazione. Vanno ad allenarsi con i club soltanto uno o due giorni. Per il resto dell’anno, dunque, si allenano al centro tecnico federale. Questo secondo me li sta facendo migliorare enormemente. Chiaramente si allenano con un gruppo selezionato, sempre ad alti ritmi, all’interno di strutture importanti con campi perfetti e con un’ottima organizzazione alle spalle. In una pre-convocazione ne avrò aggregati una dozzina dall’Under-21 in giù. Nei primi tre giorni di lavoro tutti hanno lavorato con la prima squadra. Alla fine ne ho confermati due nei 23 delle prossime partite internazionali, e stiamo parlando di due classe 2007.
Quindi chiaramente secondo me nelle selezioni giovanili c’è una buona qualità. Poi credo anche che ci siano anche dei giocatori interessanti un po’ più esperti, però parliamo sempre di giocatori di 22-23 anni. Secondo me, per arricchire ancora di più il loro bagaglio personale l’ideale sarebbe fargli trovare una collocazione in Europa, come già fa qualcuno di loro.
Il lavoro di Emilio De Leo a Malta
Come giudichi le prime due partite del tuo mandato contro Finlandia (sconfitta per 0-1 a Ta’ Qali) e Polonia (sconfitta per 2-0 a Varsavia), entrambe valide per le qualificazioni al prossimo Mondiale?
Come già ho detto prima io le giudico positivamente per quello che abbiamo espresso, anzi molto positivamente. Abbiamo mostrato tanta qualità nel possesso palla, nel baricentro, nel pressing, nelle occasioni da gol. Abbiamo giocato dopo tanto tempo con la difesa a quattro dall’inizio e in poco tempo credo che l’abbiamo interpretata bene. Sicuramente da un punto di vista tecnico, tattico, emozionale e caratteriale sono state due ottime partite.
Anzi, ti dico la verità: non mi aspettavo nemmeno questo livello in così poco tempo, sinceramente. Da un punto di vista tecnico e, in qualche modo, di ambizione, dispiace semplicemente che non siamo riusciti a ottenere punti da queste due partite. Ripeto, al di là dell’esperienza internazionale e della qualità che comunque hanno gli avversari, secondo me potevamo, in particolare nella prima partita, detto francamente, portare a casa dei punti. Questa è una cosa che dispiace.
Tu sei solo l’ultimo tra i molti italiani che hanno allenato la Nazionale di Malta. Quanto è forte l’influenza culturale del nostro paese nel calcio maltese?
Secondo me qui, almeno per quanto riguarda la Nazionale, è forte. Per quello che percepisco c’è storicamente una cultura del lavoro e una grande stima nei confronti dei tecnici e del calcio italiano. È chiaro che loro hanno sempre un occhio a quello che succede nel nostro campionato, come d’altronde a quello che succede in Premier League. I tecnici italiani hanno portato sempre la cultura tattica e la metodologia di lavoro del nostro paese. Penso che da questo punto di vista è stato fatto un bel lavoro da parte degli allenatori italiani, sia in Nazionale (Devis Mangia, Michele Marcolini e Davide Mazzotta), sia nei club.
C’è qualche selezione che ritieni un modello interessante per Malta? Penso a realtà come l’Islanda: esistono esempi da cui prendere ispirazione? Dove può arrivare Malta ispirandosi a questi?
Sicuramente ci sono tanti esempi, però credo che Malta sia ben strutturata da quel punto di vista. Va sicuramente considerato il discorso legato al bacino da cui attingere, questo è chiaro. Ma va anche considerato, senza nemmeno addentrarmi troppo, un discorso legato alla struttura dei club. La Nazionale maggiore ha un ragazzo per dieci giorni; negli altri quattro mesi lui lavora nel club. È fondamentale che nel club il ragazzo lavori in un certo modo. Vorrei comprendere meglio le realtà legate alle società locali. Andrò a seguire gli allenamenti e a parlare con gli allenatori, mi servirà sicuramente.
Per il resto, la struttura, in termini organizzativi federali, già lavora bene ed è già ben ispirata a modelli virtuosi che ci sono in giro. I ragazzi lavorano tutto l’anno insieme e, da un punto di vista metodologico e della qualità di quello che esprimono, sicuramente questo è un fattore che li aiuta a crescere tanto. Alla fine, però, credo che si possa fare ancora di più.
Un passo indietro rispetto a Malta
Tu provieni da una lunga gavetta: ritieni che la mancanza di una carriera da calciatore e di un appoggio da parte dei procuratori siano stati un freno per le tue opportunità lavorative in Italia?
Domanda secca e giusta. Da un lato io nasco nerd, ma ho sempre giocato a calcio: sono arrivato a far parte di un po’ di settori giovanili professionistici, sono arrivato a fare le Berretti [Campionato Nazionale Berretti, riservato alle squadre giovanili dei club della terza serie e soppresso nel 2020, N.d.R.]… insomma, ho sempre giocato a calcio. Poi dopo, parallelamente, ho preferito iniziare l’università e casualmente mi sono riavvicinato a questo sport.
Ho iniziato ad allenare che ero poco più che ventenne, credo a 21-22 anni. Certe dinamiche, tecniche e di spogliatoio, sono quelle che ho sempre vissuto. A livello di visibilità, di relazioni, di privilegi, sicuramente ci sono stati dei rallentamenti e credo che ve ne siano ancora oggi. Al contempo, però, ritengo anche che se sono partito allenando i ragazzi di un liceo classico che giocavano a calcio per hobby e squadre di Seconda e Terza Categoria e poi sono arrivato a sedermi su panchine importanti, evidentemente quegli ostacoli e non-privilegi mi sono serviti.
Mi hanno fatto diventare più forte, mi hanno reso sempre più competente e più preparato, più solido come professionista. Io non voglio vederli come una limitazione. Sono cose che mi sono servite a diventare secondo me quello che sono oggi. Ho avuto le mie gratificazioni da un punto di vista di carriera, di visibilità, da un punto di vista economico, quindi sono soddisfatto di tutto ciò. Sicuramente sono orgoglioso di aver ottenuto tutto con la gavetta e partendo da zero.
A fianco di Sinisa in Serbia…
Emilio De Leo ha avuto un’esperienza importante anche in Serbia, come vice-allenatore della Nazionale. Che tipo di calcio hai trovato lì e cosa ti ha lasciato quell’avventura dal punto di vista umano e professionale?
Sicuramente dal punto di vista umano a me è servita tantissimo proprio come crescita personale, perché era la mia prima esperienza lontano da casa. Mi sono trovato in una realtà importante, come quella con Sinisa, che lì, del resto, era un monumento. C’era una Nazionale che andava rifondata, perché, se ti ricordi, dopo i fatti di Genova [12 ottobre 2010, sconfitta per 3-0 a tavolino contro l’Italia in seguito al lancio di fumogeni dal settore ospiti, N.d.R.] c’erano state diverse squalifiche e tanti problemi. La stessa credibilità internazionale andava un po’ ricostruita, da un certo punto di vista.
Secondo me abbiamo fatto un lavoro incredibile con tantissimi giovani. Avevamo ragazzi di 16, 17, 18 anni: considera che c’erano i Matić, i Tadić, i Mitrović, i Nastasić, i Lazović, i Ljajić. Per non parlare di quelli un po’ più esperti come Kolarov, Ivanović, Basta… Era una Nazionale con qualità incredibili, ma con ragazzi giovanissimi che furono aggregati e iniziarono a giocare con costanza. Era il 2012 all’epoca, ma molti di questi sono ancora colonne della Nazionale nel 2025. Si può immaginare che lavoro abbiamo fatto.
Da un punto di vista tecnico, quindi, secondo me abbiamo svolto un lavoro incredibile. Da un punto di vista personale, si possono immaginare anche quanti ostacoli abbia dovuto affrontare all’inizio, sotto ogni aspetto. Alla fine, però, li ho sempre affrontati – sempre secondo me – con sicurezza e determinazione. Bisogna anche considerare che avevo già una dozzina d’anni di esperienza in panchina, avevo fatto tante cose, collaboravo con diversi allenatori. C’è stato anche un periodo in cui allenavo la squadra della mia città, che era nel frattempo fallita: ero ripartito per far ricominciare il calcio a Cava de’ Tirreni in una squadra di Terza Categoria. Al di là del fatto che già lavoravo con alcuni allenatori, pochi mesi dopo mi sono ritrovato a giocare contro la Spagna, che era la prima nazionale nel Ranking mondiale. Si può immaginare che salto sia stato.
Tuttavia, il mio approccio e l’organizzazione del lavoro non sono mai cambiati. Ho avuto tre-quattro ragazzi dello staff tecnico che mi avevano affiancato già ai tempi delle giovanili o addirittura della Terza Categoria: di lì a pochi mesi erano in Serie A, e dopo pochi anni con me al Milan. Li ho formati e portati con me. Questo fa capire che tipo di viaggio abbiamo fatto: costruzione, sacrifici, serietà, aggiornamento, studio, miglioramento. Di questo sono molto orgoglioso.
In Serbia c’era una realtà incredibile, perché c’era tanta qualità e giocatori di grande talento. Come spesso accade, i calciatori dell’Est vanno un po’ disciplinati: i serbi, per esempio, sono soprannominati “i brasiliani d’Europa”. Lo stesso Mihajlović veniva da una scuola calcistica fatta di giocatori come Savicević, Boban, Prosinecki, Jugović, Stojković. Talenti enormi che, però, non hanno mai vinto molto per via di una certa anarchia tattica. Ecco, queste erano le cose da ricostruire. Sinisa è stato bravissimo in questo senso e io, per quanto mi competeva, ho dato il mio contributo. Anche lì, secondo me, abbiamo fatto un bel lavoro.
Ero ripartito per far ricominciare il calcio a Cava de’ Tirreni in una squadra di Terza Categoria. Pochi mesi dopo mi sono ritrovato a giocare contro la Spagna, che era la prima nazionale nel Ranking mondiale.
… e a fianco di Sinisa in Serie A
Emilio De Leo, invece cosa ti hanno lasciato gli anni da assistente in Serie A, nei quali hai conosciuto da vicino il calcio di un certo livello?
Gli anni da assistente in Serie A mi hanno lasciato molto. In particolare, la necessità e la capacità di essere subito pronto ed efficace in allenamento, nella gestione delle partite, nei cambi di strategia. Mi sono allenato tanto in tutto questo. In Italia i tempi sono stretti, tutto è esasperato, la preparazione tecnico-tattica è altissima. Ho affinato e sviluppato molto questi aspetti. Devo dire che tutto questo mi lasciò anche tensione e stress: a qualsiasi livello, in Italia se alleni una squadra importante, hai delle aspettative da mantenere; se ne guidi una meno importante, o devi salvarti o puntare all’Europa. Tutto è esasperato e, secondo me, non è un fattore granché bello.
Francamente, l’adrenalina di questa esasperazione non mi manca. Mi manca, semmai, l’adrenalina della strategia, delle alchimie tattiche, l’inventare ogni giorno qualcosa di nuovo. Questo è molto diverso tra club e Nazionale, ma anche tra Italia e altri paesi. Tuttavia, quegli anni mi hanno insegnato a essere pronto, reattivo nelle proposte e nelle contromisure. Mi hanno insegnato a gestire calciatori diversi, dal più giovane al più affermato, ognuno con esigenze differenti, e a capire quali chiavi usare per Donnarumma, che ha 16 anni, o per Balotelli, che è Balotelli. Gli insegnamenti principali sono stati gestionali e tecnico-tattici. Farsi trovare pronti, questo è quello che mi viene da dire.
Tattica e fiamme
Emilio De Leo ha sbarcato il lunario prima di tutto grazie ai suoi video tattici. In generale, sei un patito della tattica a tutti livelli. Allora vorrei chiederti: qual è la tua opinione sul dibattito riguardo l’eccessivo tatticismo nei settori giovanili?
Io credo che, rifacendomi anche nel mio piccolo alla mia esperienza personale da calciatore, quello che bisogna fare sicuramente è non reprimere, non affogare, non spegnere la passione e la fiamma che brucia dentro ciascuno di noi a seconda della determinazione, delle qualità o delle varie attitudini. Questo vale sia per i giovani, sia per i calciatori più esperti. È fondamentale capire qual è la molla, la leva che invoglia a giocare a calcio. Questo è l’aspetto più importante: bisogna evitare di far spegnere e far morire quella motivazione, quella scintilla.
Credo che le esasperazioni non siano mai positive proprio per questo motivo: rischiano di spegnere quella spinta interiore da cui tutto parte. Io dico che bisogna adottare un approccio simile a quello di uno scultore: bisogna limare pian piano; alla fine, rimane la forma definitiva, la vera essenza. Bisogna tirar fuori la vocazione. In questo senso, se la tattica serve a fornire strumenti per esprimere al meglio la propria attitudine, ben venga. Ma se limita ciò che uno ha dentro, le doti naturali, allora rappresenta un grande errore.
Da un punto di vista metodologico, vedendo in che direzione sta andando il calcio, la tattica oggi deve essere uno strumento per risolvere problemi e dinamiche in contesti sempre più complessi e mutevoli. Un calciatore deve sapere che funzioni ha in una specifica zona del campo o come reagire alla pressione avversaria. Deve sapere come modificare le sue priorità.
La tattica deve rendere i giocatori più consapevoli e preparati ad affrontare situazioni sempre diverse: non solo a livello tecnico, ma anche in rapporto al contesto sociologico e culturale in cui si gioca. Nel momento in cui è da solo, grazie alla tattica il giocatore ha gli strumenti tattici ed emozionali per adattarsi al contesto. Se la tattica è insegnata in questo modo, ben venga. Se è trasmessa in maniera rigida, legata a dei cliché immutabili, è sbagliato. I cliché e i contesti cambiano.
Bisogna adottare un approccio simile a quello di uno scultore: bisogna limare pian piano; alla fine rimane la forma definitiva, la vera essenza.
Anche in virtù delle tue esperienze all’estero tra Cechia e Serbia, concordi con l’idea che gli allenatori italiani siano tatticamente i più preparati al mondo?
Credo sicuramente che come è spaccato il capello dagli allenatori della scuola italiana, non è spaccato da altri ad alti livelli, sul piano della cura del dettaglio e della conoscenza tecnico-analitica. Non so dire, però, se questo tipo di competenza, mescolata a tensioni, frustrazioni, estremismi e rigidità vari, ti consente di vincere o di sviluppare un calcio evoluto, una Federazione, una solida metodologia di lavoro. Direi di no addirittura, perché magari laddove ci sono metodologie diverse c’è una tensione agonistica differente e si riesce ad essere più produttivi ed efficaci. Se un allenatore italiano particolarmente preparato affronta un collega portoghese o tedesco, più leggero nell’interpretazione tattica, non è detto né che vinca, né che sia “più evoluto”.
La filosofia della bellezza
Emilio De Leo ha scritto una tesi sulla bellezza per il suo corso a Coverciano, esplorandone il significato che storicamente le si attribuisce e, successivamente, focalizzandosi sul mondo del calcio. Qual è la chiave per trovare uno sbocco per la bellezza nel calcio, secondo te?
Innanzitutto, parlo di bellezza perché secondo me il calcio è una forma d’arte. Tu costruisci qualcosa con le tue mani, come allenatore così come calciatore. Con le tue abilità hai creato qualcosa che fa emozionare nel momento in cui la vedi. Uno schema, uno sviluppo di gioco, etc… consente di far emozionare anche altri, quindi tu condividi non solo il prodotto delle tue azioni, ma anche l’emozione annessa, con i calciatori, i tifosi e gli spettatori. Il calcio è un mezzo d’espressione come può esserlo l’arte, la musica o qualsiasi forma artistica vera e propria.
Come dice Bielsa, noi abbiamo il dovere di esprimere la bellezza e ciò che esteticamente è piacevole. Il calcio deve essere un prodotto godibile, perché sinceramente, se perdesse appeal e diventasse qualcosa di freddo e inespressivo, non credo che avrebbe un grande futuro davanti a sé. Abbiamo un dovere quindi sotto questo punto di vista. Poi io penso sempre che chi mostra qualità esprime bellezza, matura autostima, raggiunge risultati più facilmente. Anche nel caso non avesse raggiunto dei risultati, dato che non è una cosa così semplice, rimarrebbe il fatto di aver percorso un viaggio fatto di emozioni, di bellezza, appunto. Non avrebbe perso tempo. Proporre calcio con qualità e con bellezza conduce più facilmente alla vittoria, sostanzialmente.
I calciatori seguiti da Emilio De Leo
Tra tutte le tue esperienze da allenatore e collaboratore, chi è il giocatore di una tua squadra che più di tutti ti ha impressionato?
Potrei dirne tanti, perché ognuno aveva una qualità. Per esempio, la leggerezza e la capacità di mantenere il fanciullo interiore che aveva Rodrigo Palacio è eccezionale. La voglia che aveva di divertirsi sempre, di dare tutto fino all’ultimo istante della seduta di allenamento pur essendo un giocatore esperto, per me è una cosa incredibile. Poi, lo spirito da guerriero, la determinazione, la cattiveria agonistica che aveva Belotti. Nelle annate in cui lo abbiamo allenato, come nel 2016/17 in cui fece 26 gol, era qualcosa di disarmante. Se una partita di allenamento finiva 10-8, otto gol li faceva sicuramente lui.
Ce ne sono tanti: il talento e l’inventiva di Ljajić ai tempi del Torino; la forza mentale – quando poi uno dice che si è baciati dal Signore – di Donnarumma a 16 anni; l’uno contro uno e la forza che aveva nelle gambe Orsolini, frutto di qualità particolari, Me ne vengono in mente tantissimi, per ragioni diverse. Lo strapotere fisico di Okaka o la classe di Éder e Muriel ai tempi della Sampdoria, oppure il primo Romagnoli, che ha esordito con noi, oppure Obiang di quegli anni, Gabbiadini, Duncan, Correa, per non parlare di quando abbiamo avuto Eto’o.
La qualità di gamba che aveva Zappacosta ai tempi del Torino, nella stessa annata in cui Belotti fece 26 gol, Ljajić 15, Iago Falque 13-14, Baselli e Benassi da centrocampisti 6-7 a testa. E ancora: la forza che aveva Balotelli, che sicuramente non riuscì ad esprimere a pieno in quel periodo al Milan. Non avevo mai visto prima la stessa forza del destro di Balotelli, così come quella del sinistro di Kolarov. Dal vivo vedevi qualità e talento incredibili.
Una lunga carriera, tante istantanee
Per concludere, qual è il ricordo più bello della tua carriera? Che sogno Emilio De Leo non vede l’ora di realizzare da allenatore?
Sicuramente ce ne sono diversi. Il primo ricordo che mi viene in mente è quando vinsi nel 2007 con la Cavese lo Scudetto della categoria Allievi professionisti di Serie C. A volta mi rivedo mentre salto e do un pugno al cielo quando realizziamo il 2-0 in finale che ci consentì di vincere il titolo. Avevo 27-28 anni, vincere uno Scudetto fu una grande soddisfazione. Poi mi viene in mente un gol di Gabbiadini nel derby contro il Genoa: vincemmo 0-1 su una punizione che, tra l’altro, avevo studiato io. Fu pertanto una soddisfazione incredibile.
Ripenso spesso a delle fotografie che mi capita talvolta di rivedere. Una di queste è un abbraccio con Sinisa alla fine di una partita di qualificazione con la Nazionale serba contro il Galles, che avevamo vinto in casa addirittura 6-1. Ricordo che fu praticamente la mia prima vittoria ufficiale a livello internazionale, e in quell’abbraccio con Sinisa c’era tanta gioia, ma anche tanta riconoscenza nei suoi confronti. Mi viene in mente un gol di Orsolini quando battemmo l’Empoli in quello che era praticamente uno scontro diretto. Perdevamo 0-1 in casa, ma alla fine riuscimmo a vincere 3-1; il gol di Orsolini, se non sbaglio, fu quello del 2-1 [27 aprile 2019, non sbaglia N.d.R.]. Era il primo anno e riuscimmo a salvarci: quella fu sicuramente una svolta importante. Questi sono alcuni dei flash che mi vengono in mente e spero presto di viverne tanti altri.
Per quanto riguarda i miei sogni da allenatore… non lo dico per retorica, ma faccio le cose giorno per giorno, volta per volta: è stata sempre la mia strategia, non ho mai guardato troppo avanti. Sicuramente sarebbe una bella soddisfazione vincere una competizione internazionale da allenatore, con una Nazionale o con un club. È un sogno, ma mi piace essere molto concreto: un’ambizione che nutro adesso è ottenere una vittoria con la Nazionale di Malta. A me chiaramente darebbe una soddisfazione incredibile, ma per i ragazzi sarebbe una gioia anche maggiore, indescrivibile. Se poi un giorno dovessi avere la possibilità di vincere una competizione internazionale, potrei dire di aver realizzato il sogno di qualsiasi allenatore.
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Immagine di copertina realizzata da Fabrizio Fasolino