A un anno dall’inizio dei Mondiali la domanda che ogni appassionato si pone è la stessa da sempre: perché la Serbia non diventerà Campione del Mondo?
A ricevere la Coppa del Mondo nella finale del MetLife Stadium nel New Jersey il 19 luglio dell’anno prossimo, dalle mani dell’ineffabile coppia Gianni Infantino e Donald J. Trump, non sarà il capitano Aleksandar Mitrović, miglior cannoniere della storia della Nazionale. Perché? Primo fattore, il più importante di tutti nei Balcani: la storia. Si chiamava ancora Jugoslavia e Pelé la scelse per il suo addio alla nazionale carioca al Maracanà di Rio de Janeiro nel 1971. All’epoca tutti la conoscevano come il Brasile d’Europa. Erano quasi tutti serbi e tecnicamente erano i migliori. Dragan Dzajić era una stella che secondo lo stesso Pelé avrebbe potuto prendere il suo posto.
Però nelle partite che contavano si perdevano in un bicchiere d’acqua, o nella voglia di umiliare gli avversari a suon di dribbling e tunnel. Ai Mondiali di un secolo fa, in Uruguay nel 1930, gli jugoslavi erano arrivati dopo un viaggio di un mese su un cargo postale. Raggiunsero addirittura la semifinale. Lì nasceva la loro fama: forti nelle difficoltà, grandi dissipatori di talento. L’unica altra semifinale gli jugoslavi la raggiunsero in Cile nel 1962, sempre lontano, sempre a sorpresa.
Poi, mentre le guerre nazionaliste stavano sfasciando il Paese, la generazione jugoslava più forte di sempre si presentò a Italia ’90. Il suo capitano era Dragan Stojković detto Pixie, mezz’ala tutta genio e sregolatezza come gli altri eroi di quella squadra, e della Stella Rossa di Belgrado. Il Genio per anotnomasia Dejan Savicević, Robert Prosinecki, Sinisa Mihajlović che tirava delle punizioni pazzesche, tutte nel sette. A Firenze nei quarti dominarono l’Argentina di Diego Armando Maradona, in dieci contro undici per più di un’ora. Stojković fece letteralmente a fette la difesa albiceleste, ma nessuno fece gol. Ai rigori Maradona si fece parare il suo, Stojković pure, vinsero i sudamericani.
Rivalità importanti
L’anno successivo la Stella Rossa alzò al cielo la Coppa dei Campioni, nello stadio di Bari. La Jugoslavia scese nel baratro delle guerre nazionaliste che la portarono alla sua fine. Da allora la Croazia diventò una delle nazionali più forti in Europa e nel mondo. Invece la Serbia iniziò, o continuò, una lunga tradizione di promesse mancate e di grandi delusioni. Negli ultimi due Mondiali, in Russia e in Qatar, Brasile e Svizzera hanno eliminato i serbi al primo turno, in entrambe le occasioni. Il Brasile non era più quello di Pelé, e la Svizzera era quella di Shaqiri, Xhaka, Behrami e Dzemaili. Per loro, tutti di origine albanese o kosovara, quello contro la Serbia era un derby velato di identità e rancore. Quando i primi due segnarono i gol della vittoria a Kaliningrad esultarono incrociando le mani nel segno dell’aquila bifronte che rappresenta l’identità albanese.
Fu una provocazione tra le tante avvenute nel corso degli anni, compresa quella del drone che portò sopra al terreno di gioco la bandiera della Grande Albania. Era il 2014, match di qualificazione agli Europei nello stadio del Partizan di Belgrado. Per la narrazione nazionalista dei serbi, così importante da quelle parti, iI Kosovo rappresenta da sempre il luogo del cuore della loro patria. Vedere il suo territorio unito a quello albanese nella mappa su una bandiera provocò una rissa gigantesca tra i calciatori, ma non sugli spalti. La trasferta era stata vietata agli albanesi, ma ci fu chi accusò il fratello del Primo Ministro albanese di averlo manovrato da lontano.
Sembrano storie parallele rispetto al gioco: quasi ovunque le rivalità tra i Paesi e i tifosi rimangono al margine del confronto sportivo sul campo. Non nei Balcani. Da quelle parti ti devi adattare, e ai serbi è toccato farlo ancora una volta nel recente turno di qualificazioni ai Mondiali. Albania e Serbia si sono recentemente affrontate a Tirana il 7 giugno scorso, perché il sorteggio li ha – beffardamente, ancora una volta – inserite nello stesso girone. Mezza città era off limits attorno allo stadio, la moderna Arena Kombëtare, dove la Roma ha vinto la Conference League contro il Feyenoord due anni fa. Anche in questo caso la trasferta era vietata ai tifosi ospiti, i serbi, e a buona ragione.
Le strade e le piazze erano invase da decine di migliaia di tifosi, molti dei quali venuti proprio dal Kosovo. Dentro allo stadio due enormi reti di protezione proteggevano i calciatori dagli oggetti che altrimenti sarebbero certamente piovuti dalle curve. Il lato lungo del campo era sguarnito e lì i tifosi albanesi hanno preso di mira i calciatori della Serbia che si avvicinavano da quelle parti. Fortunatamente per loro, le perquisizioni all’ingresso erano state puntigliose. I serbi colpiti da oggetti più o meno identificati sono stati soltanto un paio. Per il resto sono state due ore di forti pressioni intimidatorie, inni al Kosovo, insulti più collettivi che individuali. Le coreografie più “politiche” e nazionaliste sono rimaste soprattutto per le strade.
La Serbia dovrebbe fare di più
Per uno spettatore coinvolto ma neutrale come me dagli spalti alcune impressioni sarebbero state chiare. Primo, l’obiettivo vero dei tifosi era quello di difendere l’onore della patria e umiliare gli avversari, più che vincere la partita. Secondo, ci fossero stati anche i tifosi serbi sarebbe finita, con ogni probabilità, male, o malissimo. Terzo, e forse più importante, dentro al sangue e alla pancia dei giovani albanesi, soprattutto gli adolescenti, ci sono forti dosi di nazionalismo.
Si tratta di forme espressive difficili da immaginare per noi occidentali, anche in tempi in cui le devianze identitarie sono in forte accelerazione. Si può facilmente pronosticare che nella gara di ritorno al Marakana di Belgrado, in ottobre, i tifosi serbi renderanno ampiamente tutti questi favori ai calciatori albanesi. La partita non era ancora decisiva, essendo soltanto la terza giornata del gruppo, la prima per i serbi, ma già fondamentale. Il primo posto sembra destinato all’Inghilterra, mentre i due vicini di casa balcanici si giocano il secondo posto che spedisce ai play off (quelli dove, con ogni probabilità dopo la sconfitta in Norvegia, dovrebbe finire pure l’Italia). Forse per la paura di perdere le squadre hanno mantenuto un atteggiamento prudente.
L’unica vera occasione l’ha avuta l’Albania, che ha fallito un calcio di rigore con l’ex interista Rey Manaj all’ultimo minuto del primo tempo. Per i serbi ci ha pensato il bomber Aleksandar Mitrović a impensierire Strakosha in un paio di occasioni, senza riuscire a segnare. Si sarebbe rifatto tre giorni dopo contro Andorra, realizzando una tripletta nella sua centesima presenza in Nazionale.
La squadra di Pixie Stojković – sì proprio lui, l’eroe della Stella Rossa e della Jugoslavia di fine anni Ottanta – è sembrata giocare con il freno tirato. Forse l’ambiente ostile l’ha ridotta a più miti consigli. O forse la squadra, dopo essere stata deficitaria in difesa agli ultimi Mondiali con 8 gol subiti in 3 partite, ha acquisito maturità. Di certo quella nel Nord America sarà l’ultima occasione per brillare per la generazione attuale dei serbi, l’ultima di tante più o meno dorate. I fratelloni Milinkovic-Savic, Sergej e Vanja, sembrano già averla abbandonata, così come ha fatto Dusan Tadić, l’unico erede dei fantasisti del passato.
I leader della Serbia restano nelle tre coppie schierate una davanti all’altra. Il milanista Pavlović e Milenković, ex Fiorentina ora al Nottingham Forest in difesa, Saša Lukic del Fulham, già al Torino e l’atalantino Samardzić a centrocampo. Davanti le due torri della Serbia: Mitrović che dopo anni in Inghilterra è andato nel deserto dell’Arabia, e Dusan Vlahović che cerca riscatto dopo le difficili annate alla Juventus. Poca roba sulle fasce, pochi giovani emergenti, l’unica vera alternativa è Luka Jović, anche lui ormai passato oltre la sua dimensione da eterna promessa.
Il Kosovo rimane il cuscinetto che separa, non solo geograficamente ma soprattutto nei sentimenti delle persone, serbi e albanesi. Con una decisione che ha provocato una certa perplessità, Serbia e Albania organizzeranno insieme i prossimi Campionati europei Under 21, nel 2027. I leader dei due Paesi, Aleksandar Vučić, amico della Russia di Vladimir Putin e sotto pressione popolare per le accuse a un sistema corrotto, ed Edi Rama, amico dell’Italia di Giorgia Meloni e appena eletto per il quarto mandato consecutivo, sono maestri di diplomazia e mandano segni di distensione, soprattutto verso l’Unione europea. I popoli degli stadi sono più veraci e mantengono vive le istanze nazionaliste. Mentre le attenzioni delle opinioni pubbliche sono rivolte altrove, tra Bosnia Erzegovina, Kosovo e Macedonia la brace etnica cova ancora sotto la cenere.
Pixie Stojkovic e il suo bomber Aleksandar Mitrović rappresentano l’anima serba, tecnica e orgogliosa, forse un po’ retrò, con un passato glorioso e retorico. Sarà difficile vederli alzare la Coppa dorata nello stadio dei Giants, il 19 luglio dell’anno prossimo, davanti all’ineffabile coppia Gianni Infantino e Donald J. Trump.
Il meglio del calcio internazionale su Sottoporta: Guida al Mondiale per Club 2025
Immagine di copertina realizzata da Fabrizio Fasolino