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Intervista a… Cristiano Piccini

Abbiamo scambiato due parole con Cristiano Piccini, persona curiosa e genuina, che ha raccolto tante soddisfazioni nel corso di una carriera che lo ha condotto in giro per l’Europa.

Ritengo personalmente di essere un individuo che agogna l’ordine e la programmazione; al contempo, tuttavia, sono particolarmente abituato a quel clinamen di imprevisti che tendenzialmente animano e turbinano la quotidianità dell’essere umano. Tale congiunzione di tratti mi porta a gustare con maggior soddisfazione la bellezza nascosta degli eventi fortuiti. L’intervista a Cristiano Piccini, in effetti, non può che rientrare nel novero di tali opportunità, le quali si presentano in maniera casuale e finiscono per segnare colui che le vive. Vi è un inesprimibile appagamento nell’ottenere qualcosa di prezioso in maniera inaspettata, nel gesto che esula e trascende la quotidianità, nell’atto che si fa narrazione all’interno del personale percorso di vita che ciascuno sostiene.

Questa intervista, dunque, nasce in una domenica di novembre che di novembrile ha ben poco, dal momento che allo sguardo si presentava ben lontana dai classici aspri autunni dell’Appennino. La consueta ricerca di notizie mi invita a scandagliare i risultati più importanti della giornata e, per tale mansione, mi servo di SofaScore. Per chi non fosse avvezzo: tale piattaforma, oltre a riportare i risultati di centinaia di partite dei più disparati campionati, consta di un’interessante feature che mostra le prestazioni individuali più importanti disputate nell’arco delle ultime 24 ore.

In questa domenica così poco novembrile, tale risultato spetta ad un terzino destro del 1.FC Madgeburg, club di 2.Bundesliga. È italiano, ha 30 anni e, in qualità di tifoso nato nel Belpaese, lo conosco piuttosto bene, visto che circa cinque anni fa aveva anche esordito in Nazionale. Potete immaginare quanto stupore abbia suscitato in me scoprire che questo ragazzo militasse nella seconda divisione tedesca, peraltro in una squadra neopromossa. Al 58′ ha portato in vantaggio i suoi sugli sviluppi di un calcio di punizione, mentre quasi venti minuti dopo ha suggellato, con un tiro dal dischetto, il 1-2 finale con cui il Madgeburg ha superato il Nürnberg. Cristiano Piccini non solo ha risposto alla storia Instagram che gli abbiamo dedicato, ma in seguito ci ha concesso anche l’opportunità di raccogliere la sua storia e il suo percorso di vita in un’intervista piacevolmente inaspettata e inattesa.

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Cristiano Piccini, degno ambasciatore di Sottoporta

Non ho particolari dubbi nell’affermare che Cristiano Piccini possa essere un ambasciatore ideale di Sottoporta. Il calcio internazionale sovente offre storie di collettivi che assurgono alla gloria o sprofondano nella polvere, oppure narrazioni di redenzioni individuali, di calvari e successi, delle due facce dello sport e della natura umana. Da quando ha lasciato l’Italia, nel 2015, Piccini è stato in quattro nazioni diverse, ha giocato in club prestigiosi come Sporting CP e Valencia, ha vissuto in città storiche come Belgrado e Sevilla. Con le città d’arte ha una certa affinità, essendo lui fiorentino d’anagrafe – e ovviamente di tifo. Non è un caso che il richiamo dell’Andalusia, traboccante di patrimoni culturali di primissimo interesse, lo abbia dunque attratto così fortemente.

Cosa ti ha spinto a trasferirti all’estero? Hai sempre desiderato misurarti fuori dai confini italiani?

“Principalmente la chiamata del Betis, una squadra storica in una liga [ho voluto tenere volontariamente il prestito dallo spagnolo, nda] e un paese che mi ha sempre affascinato. E del quale sono totalmente innamorato. In quel momento sentivo che era la cosa giusta da fare, una sfida e un’opportunità di crescere che non si presenta molte volte in una carriera, soprattutto quando si è così giovani”.

Il Betis bussa alla porta della Fiorentina negli ultimi giorni del calciomercato estivo del 2014. Piccini ha 22 anni, aveva esordito in Serie A appena maggiorenne con la Viola quattro anni prima ed è reduce da una buona stagione in prestito al Livorno. Gli amaranto hanno chiuso all’ultimo posto il campionato con 25 punti e sono stati retrocessi in Serie B: curiosamente la stessa sorte era stata condivisa dal Betis. I biancoverdi risalgono subito in massima serie, non senza qualche brivido vincono il campionato e decidono di riscattare Piccini per un milione e mezzo di euro.

La prima stagione in LaLiga 2 è servita per ambientarsi nella nuova squadra e in un nuovo paese. Tale percorso, infatti, può risultare ostico di primo acchito e sicuramente nasconde numerose insidie; tuttavia, tale discorso non vale evidentemente se, alla pari di Piccini, si è ambasciatori onorari di Sottoporta.

È stato difficile ambientarsi in paesi e ambienti così differenti da quelli a cui eri abituato?

“Non é stato difficile, ma penso che sia una questione personale. Io ho sempre trovato facile stare da solo, é una cosa che amo. In quel momento sentivo che dovevo crescere come persona: imparare una nuova lingua, vivere in un nuovo paese… ero eccitato per tutto questo. Aggiungo che la mia prima esperienza all’estero é stata in una città come Siviglia… voglio dire, una città bellissima, con un clima fantastico”.

Piccini è il terzino titolare del Betis nelle due annate successive, dove colleziona 58 presenze in totale. La sua permanenza a Sevilla è stata condizionata da alcuni infortuni, soprattutto la rottura del legamento crociato nel gennaio del 2016 che lo ha tenuto fuori per 18 partite. Tuttavia, in campo si è sempre rivelato un elemento utilissimo per la squadra, ritagliandosi anche attimi di gloria: i due assist per Rubén Castro, di cui uno al 92′, nel 2-3 sul Valencia nel settembre 2016, oppure la prima rete in assoluto in carriera, nel 2-0 sul Leganés, peraltro ad un anno di distanza dal grave infortunio precedentemente citato.

L’esperienza in Portogallo

Ammetto di aver provato poche volte un tale interesse, se non ammirazione, per la carriera di un calciatore professionista. Sicuramente ha contribuito enormemente il fatto che Piccini abbia risieduto in una terra che personalmente mi affascina in maniera ineffabile e irriducibile. La penisola iberica è uno dei principali centri di produzione di storia. È una terra unica nel suo genere, nata dalla commistione di numerosi Altri che qui si sono incontrati e scontrati per secoli. È solcata dalle cicatrici di mille battaglie e dall’inchiostro delle penne che hanno decantato le volte mozarabiche di Granada e Toledo, le terre paradisiache oltre le Colonne d’Ercole, i canti di libertà e rivoluzione del primo Novecento, il fado dalla vibrante melanconia e la trasumanante introspezione della saudade lusitana.

Dove c’è storia, c’è calcio. È un assioma, una legge umana tanto precipua quanto esperibile. Non è azzardato affermare che la visione del calcio come braccio occulto della politica nasca proprio in Spagna, a Madrid, tra il Palacio de El Pardo e l’Avenida de Concha Espina, dove Santiago Bernabéu fece edificare il tempio che avrebbe ripreso il suo nome. Dal momento che è innanzitutto terra di storia, anche il Portogallo è terra di calcio, in special misura la sua capitale.

L’Estadio José Alvalade si trova nell’omonimo quartiere di Lisbona. Alvarade ostenta pallidi palazzi d’epoca convertiti in eleganti musei e vezzosi parchetti; inoltre, ivi pullulano scuole, archivi nazionali e campi di calcio. Qui sorge la prestigiosa Universidade de Lisboa, la maggiore del paese insieme a quella storica di Coimbra, dove sono presenti circa sette campi da calcio. Sempre qui ha la propria sede lo Sporting Clube de Portugal. In Portogallo ci sono le squadre di calcio dei mortali; reverenzialmente separate, poi, si stagliano Os Três Grandes, i tre club più importanti del paese. Lo Sporting è uno dei questi.

Nel 2017 la società biancoverde, guidata da Jorge Jesus, si mostra in forte ascesa e con l’ambizione di conquistare nuovamente il titolo dopo 16 anni di astinenza. L’avventura portoghese dà avvio al periodo più ricco di successi della carriera di Piccini. Esordisce ufficialmente in Champions League nei play-off, vinti, contro il FCSB. Dal momento che lo Sporting chiude il girone alle spalle di Barcelona e Juventus, debutta nella stessa stagione anche in Europa League. Il 27 gennaio 2018 vince anche il suo primo trofeo, la Coppa di Lega; avrebbe potuto conquistare anche la Taça de Portugal, ma il Desportivo Aves in finale s’impone per 2-1 e completa un’impresa irripetibile. In campionato lo Sporting chiude al terzo posto, in una stagione che ha scatenato un’ondata di violenza senza precedenti in Portogallo e che ha condotto all’incresciosa aggressione alla squadra da parte di una cinquantina di ultras nel centro sportivo di Alcochete.

“Il campionato portoghese ho avuto la fortuna di viverlo con una grande squadra, di giocarlo in uno stadio meraviglioso con una tifoseria meravigliosa. Di conseguenza avevo tutto a disposizione; sicuramente le squadre più piccole hanno meno possibilitá… diciamo che la sfida per il titolo é tra 3-4 squadre, quindi sei costretto a vincere ogni partita, perché nella Liga NOS è difficile recuperare i punti che perdi per strada. Poi ti dà la possibilità di giocare in Europa, e quindi avere un palcoscenico importante per metterti in mostra. Infatti poi sono passato al Valencia, che come storia é un club importantissimo. Mi ha fatto crescere tanto questa mentalità, questa esigenze di vincere”.

Cristiano Piccini ha donato il suo cuore a Valencia

Carlos Do Carmo cantava nel 1975 ‘Lisboa menina e moça’, Lisbona bambina e ragazza, in uno dei fadi più famosi della storia recente del Portogallo. Non si tratta di una coppia sinonimica. Lungo l’intera lirica Do Carmo pizzica e stuzzica e gioca con le corde della guitarra portuguesa sulle tenui sfumature di significato che separano la menina ancora nel pieno dell’innocenza dell’infanzia dalla moça che, invece, è entrata nella fase della sua maturità. La Lisbona che descrive il poeta lusitano, dunque, è multidimensionale e ineffabile, la quale sprigiona una forte energia emotiva e spirituale.

Attenendosi a questa metafora, si potrebbe affermare che Valencia trascenda l’essenza di menina e moça di Lisbona. Probabilmente si può asserire che piuttosto sia un’amante che guida e seduce, apparsa nel momento di maggiore maturità. In poche parole, Valencia è il grande amore di Piccini. A Valencia trova il compagno di squadra più forte con cui ha avuto modo di giocare – Dani Parejo, un centrocampista incredibile, con una classe e una calma fuori dal comune” – e il suo mentore, Marcelino“mi ha fatto arrivare in Nazionale e vincere la Copa del Rey, oltre ad essermi vicino dopo il mio grave infortunio. Si è dimostrato una grande persona e un amico, oltre ad un grandissimo allenatore”. A Valencia trova una città, una squadra e una lega che riescono a stimolarlo:

LaLiga è superiore sotto tutti i punti di vista, per la cura del calciatore, per le infrastrutture, per la qualitá dei campi di allenamento, per gli stadi etc… Secondo me è un campionato più divertente, dove si gioca di più, e negli ultimi anni si è sviluppato tantissimo anche tatticamente.

Personalmente, e spero che Cristiano mi perdoni per tale parresia, ritengo che Piccini abbia donato il cuore a Valencia per gli stessi motivi per cui ciascuno di noi compie questo genere di amorosa offerta votiva. Ho sempre ritenuto che l’amore rappresentasse la tracimazione dello spirito. Questo sentimento soverchia i limiti terreni della materia corporea dal momento che esso aggiunge sempre e comunque qualcosa a chi lo prova. Lo spirito allora tracima tanto per quanto di nuovo si è aggiunto alla sua natura quanto per l’ampliata vividità e vigoria con cui sperimenta questa sua nuova situazione.

Si ama se si è e se si ha qualcosa in più rispetto a prima, tanto in positivo quanto in negativo. Prende lo stesso nome il sentimento struggente che ha spinto Catullo a chiedere a Lesbia mille e cento baci e a salutare la muta cenere del fratello. Prende lo stesso nome la forza che – qui mi appello al diritto del lettore di ricorrere ad una lecita sospensione dell’incredulità – unisce il trionfo, la Copa del Rey vinta nel maggio 2019, e la caduta, quel maledetto infortunio alla rotula che lo ha tenuto lontano dai campi per quasi due anni e mezzo e che avrebbe potuto far concludere anzitempo la sua carriera.

Tornare a giocare dopo l’infortunio è la mia più grande vittoria. Mi dicevano che non sarei tornato a camminare con normalità ed è stato un percorso difficilissimo, sia fisico che mentale… ma alla fine ce l’ho fatta”.

Non è un caso allora che Piccini abbia dedicato il suo cuore a Valencia e che lì sia rimasto, anche dopo il trasferimento nel gennaio 2022 nella gloriosa Crvena zvezda di Belgrado, dove ha vinto due titoli nazionali consecutivo. Valencia è stata menina e moça per lui, gioia e dolore, la terra dove è cresciuto sul piano umano e che, alla pari della sua Firenze, è riuscita a farlo sentire amato e apprezzato. Del resto, Valencia ha in fondo riservato a Cristiano le sue più grandi soddisfazioni sul piano sportivo e personale: l’esordio in Nazionale nel 2018, la vittoria della Copa del Rey e, infine, il gol all’Elche l’11 dicembre 2021, “una liberazione, forse il momento più emozionante della mia carriera”.

Un’ultima dichiarazione d’amore

Per concludere, mi concedo una breve divagazione personale. Poche volte mi è capitato di giungere al termine di un’interazione sociale con la soddisfazione e la consapevolezza di aver tratto qualcosa che potesse portarmi a maturare come individuo. Questa intervista rientra sicuramente in tale novero. Cristiano Piccini mi ha trasmesso la sensazione di essere un uomo maturo e appassionato, ma soprattutto una persona realizzata e contenta. Questa sensazione è tangibile nelle sue memorie valenciane, nell’orgoglio con cui ha parlato della sua famiglia e, soprattutto, dell’immenso appagamento che ha tratto dalla sua esperienza di vita. In Piccini ho rintracciato lo stesso entusiasmo che mi guida mentre mi destreggio nel clinamen della mia quotidianità, la stessa volontà di mettersi costantemente in gioco, di apprendere sempre qualcosa di nuovo, e la gioia genuina di essere sé stessi.

Pertanto, mi piacerebbe chiudere questa intervista così personale, nata in una domenica così poco novembrile, con una sua ultima dichiarazione d’amore per il Valencia:

“Tutte le tifoserie delle squadre con cui ho giocato mi hanno impressionato, ma il mio cuore é Valencianista. Nella memoria ho la conquista della Copa del Rey, di una cittá intera unita alla squadra, di uno stadio sempre pieno, dove in migliaia ci aspettavano fuori prima di ogni partita per sostenerci e darci la carica prima di ogni gara. E poi é stata una tifoseria che mi é sempre stata vicina dopo l’infortunio. Quando ho segnato all’Elche dopo due anni e mezzo di riabilitazione ho sentito lo stadio gioire non solo per il gol, ma anche per il protagonista. Amo il Valencia e Valencia, é l’unica maglia che abbia mai baciato e l’ho fatto sentendolo dal profondo del cuore.


Immagine di copertina realizzata da PSM Sport, visita il loro sito

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Di Matteo Cipollone

Sempre alla ricerca di una storia particolare da raccontare, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Amo studiare storia e rimango affascinato da quello che essa ci offre. Accumulo libri e talvolta li leggo pure. Unisco due belle passioni: il calcio e la scrittura.

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