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Intervista a… Roberto Beccantini

Roberto Beccantini, firma illustre del giornalismo italiano, ci ha concesso due chiacchiere sul calcio internazionale di ieri, oggi e domani, spaziando da Brian Clough a Qatar 2022.

Roberto Beccantini è uno dei maestri della narrazione sportiva, apripista, sui “grandi” quotidiani, del racconto calcistico internazionale, giurato del Pallone d’Oro da metà anni Ottanta al 2009, da inviato ha seguito nove Mondiali, otto Europei e tutte le finali di Champions League dal 1992 al 2010. Un conoscitore come pochi del mondo del calcio. Solo per voi, cari lettori di Sottoporta, i suoi interessanti spunti plurigenerazionali.

Il Porto di José Mourinho quanto è stato importante tatticamente ad inizio millennio e perché?

«José Mourinho è un allenatore che, della tattica, non ha mai fatto un manifesto, un vessillo. La qual cosa non significa che l’abbia trascurata. Il suo Porto praticava un calcio normale, d’attesa e di palleggio, alla portoghese, attorno all’alto magistero di Deco, ma anche di rovesciamento, di transizione.  L’occupazione della metà campo altrui, per José, non è mai stata un’ossessione (come, viceversa, lo era per il Pep Guardiola del Barça e per l’Arrigo Sacchi del Milan). Privilegiava le contromosse. Scelta ideologica che ha poi ben sviluppato anche nell’Inter del Triplete, adattando Samuel Eto’o a “terzino” nel 4-2-3-1 sventolato soprattutto in Europa». 

Tra l’ultimo Barcellona di Guardiola e quello di Setien sono passati otto anni. Cosa è rimasto di quel modo così rivoluzionario di concepire il calcio nel mondo catalano?

«Poco. Perché, al di là della propaganda, sono i giocatori che “fanno” le idee. Del quadrilatero magico – Leo Messi, Xavi, Andrés Iniesta, Sergio Busquets – non sono rimasti che la Pulce ( 33 anni) e Busquets (32). Il Barcellona di Quique Setién è una grande squadra normale che segue il flusso del calcio, non più una grande squadra “anormale” che domina e indirizza quel flusso, come ai tempi del tiki-taka guardiolesco. Resta la scatola nera, che qua e là trasmette i dati di un tempo: penso al modo di muover palla, avanzare, piantare le insegne all’altezza della metà campo. Quegli otto anni, però, si sentono tutti». 

Cosa distingueva le squadre di Brian Clough dalle altre compagini britanniche?

«Il principio di un calcio non necessariamente britannico, non obbligatoriamente fondato sul vangelo della “palla lunga”. Il suo Nottingham si aggiudicò la Coppa dei Campioni nel 1979 e 1980, raccogliendo il testimone del Liverpool che se l’era presa nel 1977 e 1978. Anche i Reds giocavano un calcio di manovra: fisico, certo, ma non esclusivamente. Clough diceva: “Se Dio avesse voluto che giocassimo a calcio fra le nuvole, avrebbe messo l’erba lassù”. Parole sante. Il suo Nottingham aveva attaccanti che univano la saga allo spirito del tempo, Garry Birtles; altri dotati tecnicamente come Tony Woodcock e Trevor Francis; ali tradizionali alla John Robertson, centrocampisti di lotta e di governo come John McGovern (nomen omen), e Peter Shilton, un signor portiere. Senza dimenticare il vice di Brian: Peter Taylor. la sua metà saggia». 

Lei è dell’idea che l’Asia, nei prossimi cinquanta anni, possa diventare l’attuale Europa per importanza nel mondo del calcio?

«Se penso alle risorse della Cina e all’espansione (francese) del Qatar, non escludo che l’Asia possa diventare, sul piano economico-finanziario, una sorte di nuova “banca” europea. Ma a livello tecnico lo escludo. Con i soldi puoi comprare Diego Armando Maradona, non costruirlo». 

Quali nazionali, ad oggi, vede meglio come possibili candidate alla vittoria continentale in Europa e quali, nel 2022, per quanto riguarda il Mondiale?

«La Francia, innanzitutto. E’ stata l’unica, delle cinque Grandi, a bloccare i campionati causa pandemia. Ci sono state un sacco di polemiche, ma il calendario della prossima stagione – proprio per via del lockdown – non sarà così ingolfato e sadico come il nostro. C’è poi un’altra considerazione, più terra terra: la Francia è campione del Mondo in carica pur avendo lasciato a casa un centravanti del calibro di Karim Benzema, simbolo del Real campione post Cristiano. Beata lei. Francia a parte, le solite: Germania, Inghilterra, Spagna, Italia. Possibile sorpresa, l’Ucraina. Mi auguro che Roberto Mancini non debba raccogliere con il cucchiaino i giocatori che le scelte del presidente Gabriele Gravina gli consegneranno nella primavera del 2021. Auguri, con un campionato che deve ancora finire e un altro che ripartirà il 12 settembre. In funzione Mondiale, viceversa, non mi aspetto nulla di straordinario da Argentina e Brasile. Messi avrà 35 anni suonati. Se mai, qualche bollicina dal “solito” Cile“». 

Alla luce della prossima Champions agostana, la formula pre-covid della Coppa andrebbe modificata?

«La formula ideale rimane l’eliminazione (in)diretta andata-ritorno fin dal primo round. I proventi televisivi hanno cambiato il mondo. E allora, non appena si torna alla normalità, recupererei la vecchia: fase a giorni, poi ottavi, quarti e semifinali in due partite, finale unica. Certo, questo format d’emergenza, che prevede la sfida secca, è molto, molto suggestivo». 

La Steaua Bucarest degli anni ’80 quanto è stata importante per chi vede il calcio come uno sport tatticamente eclettico?

«La Steaua degli anni ‘80 fu importante, non solo o non tanto in chiave tattica, dal momento che non espresse un gioco fuori catalogo, ma perché allargò i confini, portò la Coppa nel cuore dell’Est, lasciò tracce indelebili di politica e ingerenza sportiva, dalla famiglia Ceausescu al muro di Berlino il cui crollo, nel novembre del 1989, fissò un prima e un dopo nell’ambito socio-ambientale-tecnico del football in Europa, ci lasciò l’atto unico di un portiere, Helmut Duckadam, capace di parare, nella finale con il Barcellona, quattro rigori su quattro. Un mite che, proprio per questo, diventò un mito». 

Mi motivi le ragioni per cui il Real Madrid di Zidane (2016-2018), il Bayern di Heynckes e l’Ajax di ten Hag possano essere considerate fondamentali per il calcio dellultimo decennio.

«Il Real di Zinedine Zidane, per le tre Champions e, dunque, per i risultati, per la gestione di un extra-terrestre (Cristiano Ronaldo) da parte di un terrestre-extra (Zizou). Non per il gioco: se mai, per il modo di porsi. Il Bayern di Jupp Heynckes fu, a mio avviso, addirittura più brillante del Bayern di Guardiola, solo che Heynckes non ha mai goduto di buona stampa. Non ne aveva bisogno, essendo stato un grande attaccante all’epoca del Borussia Moenchengladbach. Giocava, quel Bayern, un calcio che, d’improvviso, da verticale si faceva orizzontale, dalle sportellate passava al palleggio, se non addirittura al fraseggio. L’Ajax di Erik ten Hag perché ha saputo rinverdire la vocazione della scuola olandese, il messaggio secondo il quale si può seminare calcio (abbastanza) totale anche dopo devastanti sconfitte come quella contro il Tottenham e/o in barba a tesori non proprio da sceicchi. Il secondo tempo dell’Ajax allo Stadium, contro la Juventus, non lo dimenticherò mai».   

In tutti questi anni di partite vissute in tribuna, quali sono stati i tre momenti più emozionanti?

«Quattro, non tre. In ordine sparso: la tripletta di Paolorossi al Sarrià contro il Brasile. Il ricamo di Michel Platini a Tokyo, nell’Intercontinentale fra Juventus e Argentinos Juniors, cancellato dalla “tonteria” di un arbitro tedesco. Il gollissimo di Zidane a Glasgow, nella finale di Champions tra Real e Bayer Leverkusen. Il ribaltone del Liverpool a Istanbul, da 0-3 a 3-3». 

Jurgen Klopp è l’allenatore dell’anno, ma il suo è stato un processo lungo e difficile: quali sono stati i suoi più grandi meriti?

«Aver sempre seguito i propri ideali senza trascurare gli ambienti in cui lavorava, la materia che aveva a disposizione. La pazienza. Il fiuto. La faccia tosta. E l’attrazione per un calcio verticale che, personalmente, adoro». 

Cosa manca all’Argentina per imporsi a livello internazionale?

«Nel 2014 arrivò seconda, dietro la Germania. Penso che le manchino il Messi di Barcellona, un contorno che non ne soffra la personalità così silenziosamente schiacciante e un leader in campo. Che era Maradona, che non è ancora (e mai sarà, temo) Messi».

Intervista a cura di Luigi Della Penna. Si prega gentilmente di citare Sottoporta in ogni riproduzione su altre parti.


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Fonte foto di copertina: Hellas1903.it

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