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Le concussions nel calcio

Finalmente le autorità del calcio hanno cominciato ad occuparsene. Sono le concussions: le commozioni cerebrali.

A seguito del violento scontro con David Luiz nel match del 29 novembre scorso, Raul Jimenez, attaccante del Wolverhampton, ha subito una frattura del cranio rimanendo a terra, immobile, per 8 lunghissimi minuti. Trasportato in ospedale, il messicano è stato sottoposto ad un’operazione chirurgica per ricomporre la frattura. Un infortunio, violento e spaventoso, che ha riportato in prima pagina il tema dei colpi di testa e delle “concussions” (commozioni cerebrali, ndr) e i problemi di salute correlati.

Ci sono volute meno di 24 ore perché Lukas Brud, chief executive dell’IFAB, dichiarasse che sarebbe stata proposta l’introduzione di una sostituzione aggiuntiva da spendere in caso di commozione cerebrale. Così è avvenuto e, con la delibera del 16 dicembre, l’IFAB ha introdotto questa nuova regola, convenendo che, in caso di commozione cerebrale effettiva o sospetta, il giocatore in questione debba essere definitivamente sostituito. Questa grande novità, tuttavia, non esaurisce l’enorme questione legata alle cosiddette “concussions”, per le quali non bastano sostituzioni “gratis” e protocolli. No, per scendere davvero alle radici del problema dobbiamo andare indietro di quasi 60 anni, ai Mondiali inglesi del 1966.

Il caso dei Mondiali 1966

Ray Wilson, Martin Peters, Nobby Stiles, Jack Charlton, Bobby Charlton, Alf Ramsey. Se nominate questi campioni ad un tifoso inglese probabilmente gli si illumineranno gli occhi. Questi sono infatti alcuni degli eroi dell’ultima coppa del Mondo vinta dai Three Lions più di 54 anni fa. Oltre a condividere quella magnifica vittoria, tuttavia, questi sei nomi evocano un tema ben più drammatico: il rapporto fra la demenza e il calcio professionistico.

Wilson nel 2018, Peters nel 2019, Stiles e Charlton nel 2020: tutti questi giocatori sono morti di recente a seguito di malattie raggruppabili sotto il nome di “demenza”. Con questo termine intendiamo una “una malattia cronico degenerativa caratterizzata dalla progressione più o meno rapida dei deficit cognitivi, dei disturbi del comportamento e del danno funzionale con perdita dell’autonomia e dell’autosufficienza”.

Alf Ramsey, storico allenatore di quella selezione, è morto nel 1999 convivendo, nei suoi ultimi anni di vita, con la sindrome di Alzheimer. Di recente, la moglie di Sir Bobby Charlton, eroe di quella Nazionale, ha dichiarato che anche il marito, che ha perso il fratello per questa malattia, è affetto da demenza. Una tendenza che sembra una maledizione per la generazione dorata del calcio britannico. Perché questi giocatori hanno sviluppato queste malattie degenerative? E perché proprio quella generazione è stata particolarmente colpita?

Il vecchio pallone

Una risposta univoca deve essere ancora ufficialmente individuata, ma un indizio fondamentale è che la Coppa del Mondo del 1966 fu l’ultima ad essere giocata con il “vecchio pallone”. Dai Mondiali del 1970 infatti si abbandonò il pallone fatto di gomma dura e cuoio per passare ad una versione sempre più leggera e moderna. Una versione che avrebbe tutelato la testa dei giocatori, i quali lamentavano spesso di soffrire di forti emicranie e di sentirsi nauseati dai continui colpi di testa con palloni appesantiti dal fango e dalla pioggia.

In un articolo comparso nel 1975 nel Sunday Times e ripreso in quegli anni negli importanti studi del professore Bill Johnson, si evidenziava già allora come, dei 55 calciatori morti dal 1951 in poi, 26 avessero avuto un infortunio alla testa e per altri 8 le indagini avessero collegato la morte a problemi legati al colpo di testa. Appena un anno prima, il professor Johnson aveva compiuto una serie di esperimenti che avevano evidenziato come il colpo di testa lineare, ovvero senza torsione del collo, non producesse danni immediati, ma che, tuttavia, potesse creare grossi problemi se ripetuto nel tempo, e, soprattutto, portare a conseguenze sconosciute se effettuato lateralmente o a seguito di una torsione.

Il caso di Jeff Astle

Trent’anni dopo le importanti ricerche del prof. Johnson, nel Regno Unito, il tema della demenza e della relazione che questa malattia poteva avere con i colpi di testa ritornò a far notizia. Nel 2002, infatti, morì a 59 anni Jeff Astle, storico attaccante del West Bromwich degli anni ‘60. Celebre per la sua abilità nei colpi di testa, secondo la ricerca dell’Università di Toronto avrebbe pagato a caro prezzo questa sua peculiarità tecnica. I “ripetuti piccoli traumi” a cui, ogni volta che colpiva il pesante pallone, sottoponeva il suo cranio avevano portato a danneggiare il suo cervello, fino a causare la demenza.

 fondazione Jeff Astle
La fondazione Jeff Astle è nata dopo la morte, a soli 59 anni, del grande attaccante inglese (fonte: thejeffastlefoundation.co.uk)

Nel 2014, ai fini di verificare queste ipotesi, si riesaminò il cervello di Astle e si scoprì che l’ex attaccante della Nazionale aveva sofferto di CTE (Encefalopatia traumatica cronica), malattia progressiva degenerativa del cervello che fin dagli anni ‘20 era conosciuta come “demenza pugilistica”. La diagnosi postuma effettuata su Astle ha acceso il dibattito nel Regno Unito sul tema del colpo di testa e, mentre l’adozione di un protocollo sulle concussions nel calcio era lontano da vedere la luce, emergeva un numero sempre maggiore di ex giocatori che sviluppavano sintomi riconducibili alla demenza. Nonostante ciò, la discussione continuò a rimanere relegata ai margini del calcio inglese. Fino a che non entrò in gioco Alan Shearer.

Il viaggio di Alan Shearer

Nel 2016 il celeberrimo attaccante ex Blackburn e Newcastle decise di intraprendere con la BBC un percorso di esami, indagini e studi per valutare l’impatto del colpo di testa sulla salute, riprendendo il tutto in un docufilm.

Alan Shearer ha segnato 260 gol nella sua gloriosa carriera. Un quinto di questi è arrivato proprio con un colpo di testa e si valuta che, nel corso della sua carriera, sia arrivato a colpire il pallone di testa oltre 400.000 volte. In un’intervista al This Morning, un emozionato e preoccupato Alan Shearer ha spiegato che “quando entri nel mondo del calcio sei consapevole che avrai dei problemi alle ginocchia, alle caviglie, alla schiena. Ma non immagini che puoi subire dei danni al cervello. Perché chi sale sul ring nella boxe non si è mai posto questo problema? Perché nella boxe il danno al cervello è un rischio accettato. Nel calcio nessuno ti dice che potrebbe succedere.

Nel documentario prodotto dalla BBC, oltre a sottoporsi a esperimenti ed esami specifici, Shearer ha sottolineato il peso sociale che questa problematica ha avuto e sta avendo. L’ex attaccante della Nazionale inglese ha infatti incontrato diverse famiglie di ex giocatori, raccogliendo le loro testimonianze e i loro appelli. Nel documentario emerge l’ansia e l’insicurezza di un campione come Shearer, che tuttora teme di poter sviluppare una forma di demenza nella sua vita

Alan Shearer si sta battendo affinché si approfondisca il tema della demenza nel calcio professionistico

L’esplosione del caso concussions

Il 2019 è stato l’anno in cui il caso è definitivamente esploso. Poco più di un anno fa, infatti, il Daily Express ha pubblicato in prima pagina uno sconcertante studio dell’Università di Glasgow. Sviluppato per 22 mesi sui casi di 7.676 ex calciatori scozzesi, lo studio ha evidenziato come i calciatori professionisti abbiano una percentuale di rischio molto superiore alla media di morire di demenza o di altre gravi malattie neurologiche. Dalla ricerca emerge inoltre che il rischio è cinque volte superiore per l’Alzheimer, quattro per malattie neuromotorie come la Sla e due per il Parkinson. Dati indiscutibili, che hanno sconvolto il Regno Unito. Lo “scoop” del Daily Express ha riportato definitivamente l’argomento al centro della discussione e ora è diventato uno dei temi caldi non solo per gli inglesi, ma per tutto il mondo del calcio.

La situazione oggi

La reazione dell’opinione pubblica su questi temi è stata colpevolmente tardiva. Oltre agli eroi del 1966, ormai decimati, sono numerosissimi i calciatori che – direttamente o per il tramite delle loro coraggiose famiglie – chiedono da anni di fare chiarezza. Dalla moglie dell’ex Middlesbrough Bill Gates, che ha dichiarato come il marito lamentasse spesso di soffrire di emicrania durante la carriera, fino al figlio di Chris Chilton, il quale ricorda con amarezza come al padre ancora trentenne un dottore dichiarò che “aveva il collo di un vecchio di 90 anni”. Queste battaglie, portate avanti individualmente da amici, parenti, mogli e figli di ex calciatori ormai morti o impegnati nella battaglia contro la malattia, hanno trovato ora una unità che può finalmente portare ad una vera sensibilizzazione su un tema così fragile ed urgente.

Ad oggi solo negli Stati Uniti (paese che ha una grande tradizione sui protocolli delle concussions) sono stati vietati i colpi di testa per gli Under-11. Nel Regno Unito, invece, tale divieto si limita ad una raccomandazione per quanto riguarda i soli allenamenti. Il CISG non ha ancora adottato un approccio chiaro sul rapporto fra i colpi di testa e la demenza, sottolineando la mancanza di un nesso causale diretto per collegare questi due elementi. Per molti, però, la visione del CISG è troppo influenzata da un approccio sport-friendly e non incentrato sulla tutela del calciatore. Alcuni hanno sottolineato come ad oggi il CISG ha analizzato solo 47 studi scientifici a riguardo sui 3800 sottopostigli. La FIFA, da parte sua, rimane in disparte e sembra non voler entrare nel dibattito.

Il “protocollo concussions” non basta

Dopo il terrificante scontro fra David Luiz e Jimenez, il tema è tornato ad occupare le pagine dei giornali inglesi ed internazionali, ma il problema è ben lontano dalla risoluzione. L’inserimento di un protocollo per le concussions è solo il primo gradino di un processo più lungo. Un processo che potrebbe avere conseguenze rivoluzionarie per tutto il mondo del calcio e che potrebbe finalmente dare delle risposte. Risposte attese da tutte quelle famiglie che stanno piangendo i propri cari o che stanno ancora soffrendo con loro, per una malattia le cui cause ormai stanno venendo rapidamente a galla.


Il meglio del calcio internazionale su Sottoporta: Attenzione a….Werton

Fonte immagine di copertina: Twitter Wolverhampton

Di Umberto De Marchi

Appassionato di tattica e delle storie sconosciute del calcio, sono un grande appassionato di musica e consumatore seriale di podcast.

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