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Faruk e l’ultima Jugoslavia mondiale

Faruk Hadzibegic è stato un buon difensore, protagonista suo malgrado della storia della morente Jugoslavia e ultimo capitano dei Plavi, nel 1992.

C’è una storia particolarmente dolce e al tempo stesso tragica nel marasma jugoslavo di inizio Novanta: Gigi Riva, firma di spicco dell’Espresso, ha pubblicato nel 2016 il libro “L’ultimo rigore di Faruk“, con protagonista Faruk Hadzibegic, ultimo capitano della Jugoslavia.

Un tiro dal dischetto, un portiere di origine basca con la maglia dell’Argentina, una porta girevole che se fosse stata aperta avrebbe verosimilmente spalancato scenari inediti.

Faruk

Faruk Hadzibegic nasce il 7 ottobre 1957 a Sarajevo, definita da Riva una “promessa di felicità. La città. che sorge sulla soglia di una frattura di aree di influenza, sospesa tra oriente ed occidente, tra islam, ortodossia e cattolicità, […] Con la nascita della Socialista Seconda Jugoslavia, Sarajevo si riprende la sua anima, torna ad essere simbolo della convivenza multietnica. Ci sono i musulmani di Bosnia, come Faruk, un vero ossimoro. A dispetto della definizione sono quasi tutti laici, o atei.
L’ingresso nella squadra della sua vita, il FK Sarajevo, arriva quando Faruk ha nove anni. Non sarà un fenomeno, ma diventa gradualmente un ottimo difensore, di quelli amati dai tifosi.
Una volta esordito in prima squadra, diventa un pilastro.

Il Sarajevo si trova quasi sempre nelle zone basse della classifica, ma in città si respira un’aria ambiziosa, trascinata dalle Olimpiadi invernali svoltesi nella capitale bosniaca nel 1984.

I pezzi grossi del club decidono di ingaggiare uno psichiatra per motivarli. Il tizio in questione appare un uomo pacifico, sempre prodigo di consigli di distensione tra appartenenti alle diverse etnie, a tratti strambo, ma nessuno si sarebbe mai aspettato che quell’individuo potesse rivelarsi uno dei peggiori criminali del Novecento: il suo nome è Radovan Karadzic. Diventerà leader dei serbi di Bosnia, ordinerà l’assedio di Sarajevo, Srebrenica e non solo.

Cambiamenti

Nel 1985, dopo aver vinto uno storico campionato, Faruk decide di andare a giocare in Spagna, nel Betis Siviglia, fondamentalmente per guadagnare uno stipendio di molto superiore rispetto al salario jugoslavo. Osserverà da lontano l’aggravarsi della situazione: inizialmente non capisce la gravità di tali avvenimenti, tanto che quando un suo compagno gli racconta di scontri avvenuti in Jugoslavia, lui risponderà: “No, non è niente di grave.”
Nel frattempo, Milosevic comincia a sdoganare parole che rimandano all’ideologia nazista: si passa da “Germania è ovunque si trovi un tedesco”, a “Serbia è ovunque ci siano tombe serbe”.
A pochi giorni dall’inizio della manifestazione mondiale del 1990, al Maksimir di Zagabria, è in programma la partita amichevole contro l’Olanda campione d’Europa in carica.

Nonostante la situazione si stia surriscaldando, non si può rinunciare all’incontro: qui entrano in gioco i piccoli dettagli che, sommati ad altri enormi fattori, contribuiscono a rendere l’idea di quale situazione si vivesse in Jugoslavia in quel preciso momento storico.

Il gruppo dei bosniaci della nazionale, Hadzibegic, Susic e Vujovic si reca alla reception dell’Hotel in cui soggiornano per prenotare le camere alle mogli. Un uomo del personale chiede loro i documenti, ma i giocatori non li hanno perché in mano ai dirigenti della nazionale.

Nonostante tutti li conoscano, non possono fare quello che vorrebbero. Provano a protestare, ma niente da fare, la burocrazia resta inflessibilmente vassalla del potere.

Alla fine qualcuno interviene, prima che si sprofondi nel ridicolo.

L’Olanda vincerà due a zero, ma non è il risultato di per sé a far riflettere, è la situazione grottesca che incornicia il match, con il tifosi jugoslavi che incitano gli olandesi e fischiano il proprio inno. Si leva al cielo il coro “Boban, Boban!“, in onore dello squalificato di casa, poi viene urlato ad Osim e Stojkovic:”Pederasti, pederasti!
Faruk è visibilmente infastidito, gli olandesi dichiareranno di non sapere di avere così tanti sostenitori da queste parti, salvo poi essere avvisati della situazione e fare dietrofront.

Italia 90

Non c’è tempo, la Jugoslavia parte per il ritiro italiano con sede a Sassuolo, accompagnata da aspre polemiche: alcuni giocatori vengono tacciati di rappresentare le “quinte colonne” delle diverse Repubbliche con l’intento di creare il caos in squadra non passandosi la palla, distruggendo dalla base l’essenza del gioco. Viene identificata la parte di atleti più vicini alle idee nazionaliste, in una sorta di caccia alle streghe. I calciatori rispondono, all’unisono, in maniera sdegnosa alle accuse, per loro infondate.

I Mondiali incombono, la Jugoslavia è stata inserita nel girone D e il 10 giugno, giorno dell’esordio, dovrà sfidare la Germania Ovest: Osim decide di schierare tutti i pezzi da novanta d’attacco: Susic, Stojkovic, capitan Vujovic e Savicevic.

Germania-Jugoslavia non è una partita come tante altre. La memoria di chi ha vissuto alcune della pagine peggiori del ventesimo secolo non sbiadisce: il 6 aprile 1941 i nazisti bombardano Belgrado, con gli animali dello zoo che vagano per la capitale, un’immagine per molto tempo ben impressa nel ricordo dei belgradesi.

L’occupazione avrà inizio in quei terribili istanti e vedrà la sua fine nel 1945, aprendo poi la strada alle forze partigiane, le quali dovettero contrastare anche i cetnici ed il governo ustascia, collaborazionista, in Croazia con Pavelic. Inoltre, anche nel Primo conflitto mondiale la Serbia venne invasa dai tedeschi.

Due guerre, altrettante volte Belgrado e Berlino si sono trovate l’una contro l’altra, con Zagabria a doversi macchiare del peccato collaborazionista nel Secondo conflitto per poi inginocchiarsi ai vincitori.

A Zagabria e a Lubiana si guarda molto più a Berlino che a Belgrado. Nel 1990 la situazione scorre verso il capovolgimento, la Germania sta per riunirsi in un’unica nazione, la Jugoslavia scricchiola sempre più.

A San Siro, la squadra di Beckenbauer annienta le velleità offensive di Osim, il risultato finale è di 4-1 per i futuri campioni del mondo.

Avanti Plavi

Non c’è tempo per isterismi, la seconda partita del girone vede confrontarsi i “Plavi“, “blu“, con la temibile Colombia: la risolve Jozic, con Hadzibegic che si vede parare un calcio di rigore da Renè Higuita. Riva scrive: “almeno calcisticamente, la Jugoslavia è viva”.

La terza ed ultima partita vede come avversario dei ragazzi di Osim contrapposti agli Emirati Arabi Uniti. Osim è pronto a fare da parafulmine, attraendo su di sé il fango gettato dall’ostile stampa di Belgrado, la quale gli affibbia epiteti come ubriacone, affermando che il CT si fosse scolato undici bottiglie di whisky ad una festa.

Inverosimile.

L’Orso, causa il carattere spigoloso, si chiude a riccio e alza un muro contro i nemici mediatici. In campo va una formazione decisamente offensiva, 4 a 1 l’epilogo del match.

Ottavi centrati.

Faruk nota con piacere la presenza, timida, di qualche tifoso della Jugoslavia. Ha sentito che da qualche parte, anche nelle Repubbliche del nord, la gente è scesa in piazza a festeggiare.

Il calcio ha ancora un senso, è probabilmente uno dei pochi poli d’aggregazione di una nazione che sta gradualmente prendendo la strada del baratro.

Forse abbiamo invertito una tendenza.

Il gioco si fa duro

Spagna, stadio Bentegodi di Verona: è la nazionale di Luis Suarez, la quale per buona parte della partita avrebbe in pugno la situazione, se non fosse che il signor Pixie Stojkovic, il “Maradona dell’Est“, uno di quei calciatori che quando decide di vincere lo fa da solo: è letteralmente imprendibile, gli spagnoli non gli stanno dietro, ha alzato così vertiginosamente l’asticella da sembrare un marziano piombato in Veneto da un pianeta lontanissimo.

La partita è intensa dal punto di vista del gioco e delle emozioni, alla fine dei tempi regolamentari il risultato è di uno a uno, le formazioni andranno ai tempi supplementari e Stojkovic è semplicemente meraviglioso quando, con un calcio di punizione magistrale, regala la qualificazione alla nazionale degli Slavi del sud.

Sarà Argentina, capitanata da Diego Armando Maradona, con Firenze campo di battaglia, se tale espressione è permessa, dato l’argomento.

Jugoslavia, ultimo atto

Il 30 giugno 1990 è un giorno che lancia segnali al mondo che verrà, quando stanno ancora cadendo i calcinacci del Muro e la Germania sta tornando un’unica realtà.

L’Europa sta cambiando irrevocabilmente.

A Firenze fa caldo, il clima sportivo è arroventato.

La partita si mette male per la Jugoslavia, rimasta in dieci nel primo tempo: in altre occasioni gli slavi si sarebbero sciolti alle prime avversità, non in questo caso. L’Argentina, in un modo o nell’altro, riesce a rimanere a galla fino ai calci di rigore.

Qui le lancette della storia cominciano il loro viaggio impazzito verso l’ineluttabile.

Sono quasi le 19:30 e il Comunale è baciato dall’afa. Citando Machiavelli, la fortuna incide per il cinquanta per cento sulle vicende umane.

La lotteria ha inizio, l’Argentina è in vantaggio dopo la prima serie, idem alla seconda, poi, sul dischetto si presenta Maradona, al quale Ivkovic, il portiere slavo, aveva già parato un calcio di rigore.

El Diez sembra cambiare idea all’ultimo, rigore parato, la Jugoslavia esulta.

Savicevic pareggia i conti. Troglio sbaglia, sul dischetto si presenta Faruk, tutto è pronto, quando l’arbitro, il signor Rothlisberger, ferma tutto, dicendogli di farsi indietro: non è il suo turno, ma tocca a Brnovic, il quale sembra non aspettarsi quella chiamata.

Infatti sbaglia.

Dezotti segna per l’Argentina. Faruk si presenta ancora una volta sul dischetto, un suo eventuale errore significherebbe eliminazione.

Goygochea ha la meglio.

La Jugoslavia ha perso una grande occasione, non solo calcistica, ma soprattutto sociale: lo sport ha da sempre il potere di unire le masse, anche se questa situazione sarebbe stata difficile anche per il calcio, ma non è un caso se, ad oggi, Faruk venga fermato spesso quando fa ritorno in patria e le persone, anche i più giovani, gli ricordano del rigore di Firenze, di cosa sarebbe potuto accadere se non lo avesse sbagliato.

This is the end

Un quotidiano di Spalato riporta la notizia di un uomo suicidatosi con un colpo di pistola dopo l’eliminazione dei suoi beniamini. Forse, un triste presagio di quanto accadrà di lì a breve: come dirà Faruk proprio nel libro di Riva, “ogni club in Jugoslavia era politica, soprattutto la Nazionale era politica.[…] Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo sconfitto l’Argentina. Forse sono troppo ottimista, ma nelle mie privatissime illusioni mi chiedo cosa sarebbe successo [… ] Forse non ci sarebbe stata la guerra se avessimo vinto la Coppa del mondo.

C’è tempo per un’ultima recita, il 25 marzo del 1992, contro l’Olanda. Faruk ha la fascia al braccio: sarà l’ultimo capitano del Brasile d’Europa, prima dell’implosione della terra degli Slavi del sud.

Finì 2-0 per gli Orange.

“Per me la Jugoslavia era come una bella donna di cui sei innamorato. Proprio per il sentimento che provi, tu la trovi irresistibile, intelligente, educata. Mentre per gli altri, che la guardano con occhi diversi, non è così.”


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Fonte foto di copertina: https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Valenciennes_-_UNFP_FC_(02-07-2016)_9.jpg

Fonte: Proprio lavoro, Autore: Supporterhéninois

Di Luigi Della Penna

Classe 1996, mi definisco un cacciatore di storie e un mendicante di emozioni. Il calcio è vita, ma un'esistenza senza football non sarebbe la stessa cosa.

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