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Bert Trautmann, da nemico a leggenda

I campi di battaglia quando era appena un ragazzo, la prigionia e poi la svolta calcistica nel paese avversario: ecco come Bert Trautmann divenne pian piano un monumento nella storia del calcio inglese.

Il ventennio che trascorse tra le due Guerre Mondiali risulta essere uno dei periodi più convulsi della storia europea contemporanea, evidenziato – fra gli altri fattori – da malcontenti popolari, nascita di regimi totalitari e stravolgimenti geopolitici dovuti al Trattato di Versailles.

Il paese che più si inserì in questo quadro fu la Germania, sconfitta, riconosciuta come principale colpevole del conflitto e di conseguenza destinata a pagare il prezzo più alto, sia in termini puramente economici che territoriali. Fu proprio in questa complicatissima fase della allora Repubblica di Weimar che nel 1923, a Brema, nel nord-ovest del paese, nacque Bernhard Carl Trautmann.

Paracadutista e prigioniero

Cresciuto in un contesto segnato dall’ascesa del Partito Nazionalsocialista, il giovane Trautmann cominciò a calcare i terreni giocando come centrocampista. Contemporaneamente aderì alla Gioventù Hitleriana e, a 17 anni, arruolatosi volontario nell’esercito tedesco, venne mandato come paracadutista sul fronte russo. Qui si distinse per atti eroici che gli valsero la Croce di Ferro, inizialmente di Ia classe e – nel 1942 – di IIa classe. Proprio sul versante orientale venne fatto prigioniero, ma riuscì a scappare. Ugualmente accadde pochi mesi dopo, quando raggiunse il fronte occidentale e finì preda dei Francesi.

Dreimal ist Bremer Recht.

Proverbio celebre in quel di Brema

“Tre volte è giusto a Brema”: così recita il detto di cui sopra, che rendiamo meglio come “la terza volta è quella giusta a Brema”. Siamo sicuri che per Trautmann queste parole siano suonate beffarde, perché – dopo due imprigionamenti e altrettante rapide fughe – nel 1944 fu catturato per la terza occasione, in seguito al bombardamento anglo-americano su Kleve. Degli oltre mille uomini che componevano il reggimento sopravvissero solamente in novanta. Gli Alleati lo fermarono e lo spedirono ad Ashton, non prima però di avergli chiesto se avesse gradito una tazza di tè.

Proprio nel campo di reclusione situato non distante da Manchester, Bert – come venne soprannominato per facilità di pronuncia – scoprì il proprio talento come portiere. Le versioni sul motivo che portò Trautmann a difendere i pali non sono univoche: poco male, a conti fatti, considerando la carriera avuta. Una volta uscito dal luogo di prigionia decise, un po’ sorprendentemente, di restare in Inghilterra, dove ammise di sentirsi a suo agio.

Oggi mi sento britannico nel cuore. Quando mi viene chiesto della mia vita dico che la mia educazione è iniziata quando sono arrivato in Inghilterra. Qui ho imparato il perdono, la tolleranza e l’umanità. Crescendo nella Germania nazista non ragionavo di testa mia. Inoltre quando sei nell’esercito ricevi degli ordini e devi obbedire: se non l’avessi fatto sarei stato fucilato.

Uno stralcio delle parole di Trautmann al Guardian – 2010

Un impatto tutt’altro che semplice

Dopo aver difeso brevemente la porta del St.Helens Town – un club minore con sede vicino a Liverpool – passò al Manchester City, team che all’epoca non rappresentava un colosso come ai tempi odierni, pur essendo un club di tutto rispetto. I dirigenti degli sky blues decisero di dargli un’opportunità avendolo visto all’opera nel corso di un’amichevole. I tifosi, dal canto loro, non lo accolsero bene. Bert era difatti chiamato a sostituire un idolo quale Frank Swift, portiere del primo City Campione d’Oltremanica e che, una volta lasciato il calcio giocato, intraprese la carriera da giornalista. Proprio in questa veste Swift si spense nel 1958, insieme ai Busby Babes, trovandosi sul tragico volo del disastro aereo di Monaco di Baviera.

Il motivo principale per cui Trautmann andò incontro all’ira dei supporters citizens era tuttavia la sua provenienza. Si trattava di un tedesco e non un tedesco qualsiasi, ma di un nazista che aveva combattuto contro la patria britannica. In particolare fu la comunità ebraica mancuniana, profondamente segnata dalle atrocità della guerra, a scagliarsi contro l’estremo difensore. In 20.000 scesero in piazza per opporsi al nuovo arrivato, minacciando di strappare l’abbonamento, ma la lettera scritta dal rabbino gettò acqua sul fuoco. “Malgrado le crudeltà che abbiamo sofferto a causa della Germania” – disse – “Non puniremo un individuo tedesco che non ne è direttamente responsabile.” Parole sottoscritte pubblicamente da Eric Westwood, capitano della squadra, che accolse Trautmann affermando: “Nello spogliatoio non c’è guerra”.

L’odio si trasforma e Trautmann diventa un’icona

Durante la prima gara con la nuova maglia, disputata contro il Fulham, entrambe le tifoserie lo fischiarono, ma in seguito alla sua splendida prestazione fu naturale tributargli un lungo applauso. Le proteste nei suoi confronti diminuirono via via, fino a lasciare spazio al solo calcio giocato. Il resto è una storia lunga quindici anni, con oltre 500 presenze in maglia celeste e in bacheca la FA Cup del 1956.

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Nonostante non sia mai stato convocato dalla Nazionale tedesca, per via della sua militanza in un campionato estero, vi sono pochi dubbi su chi fosse il miglior portiere teutonico dell’epoca. La grandezza di Trautmann, oltre che dai numeri, è rappresentata anche dalle diverse barriere che riuscì ad infrangere. Proprio nel 1956 fu il primo straniero ad essere eletto Giocatore dell’anno della First Division, e quattro anni più tardi entrò a far parte della rappresentativa della Football League che avrebbe sfidato, in una sorta di All Star Game, le corrispondenti selezioni irlandese prima ed italiana poi.

Oltre 60.000 persone vollero presenziare a Maine Road, nella notte d’aprile del 1964 che sancì la fine della sua avventura con la casacca del City. I fischi si erano tramutati in applausi e non mancarono gli attestati di stima di altri mostri sacri del calcio britannico, tra i quali Bobby Charlton, Stanley Matthews e Gordon Banks. Quest’ultimo – autore della “parata del secolo” e spesso ritenuto il miglior portiere inglese di tutti i tempi – andò oltre alle lusinghe sulla sua bravura fra i pali e dichiarò:

Era un incredibile uomo di sport: giocava ogni partita come se ci dovesse qualcosa, se dovesse qualcosa a tutti perché era stato accettato nonostante il suo passato. Per me era più vero il contrario, noi avremmo dovuto essere grati a lui per essere rimasto e averci mostrato che gran portiere era.

Scavezzacollo

L’episodio che consegnò Bert Trautmann al gotha del football d’oltremanica, e specialmente degli sky blues, ebbe luogo il 5 maggio 1956. A Wembley si giocava la finale di FA Cup fra i Citizens ed il Birmingham, a cui i primi arrivavano da vicecampioni in carica, essendo stati sconfitti dal Newcastle nell’atto conclusivo della stagione precedente. La squadra di Trautmann si impose per 3-1, grazie anche alle sue parate, ma non è tutto.

Quando il cronometro segnava il 73′, difatti, Bert si lanciò in uscita per fermare l’attaccante biancoblu Peter Murphy ed evitare che il Birmingham accorciasse le distanze. Lo scontro fu durissimo e l’estremo difensore ebbe la peggio. All’epoca, tuttavia, non era concesso sostituire i calciatori infortunati. Trautmann fu dunque costretto a proseguire la partita tenendosi il collo con una mano per via del dolore lancinante. Nonostante le condizioni precarie riuscì a compiere un paio di ulteriori interventi, salvando il risultato e permettendo ai mancuniani di sollevare l’ambito trofeo.

Nei giorni successivi le fitte divennero insopportabili e fu necessario sottoporsi ad ulteriori accertamenti. Diagnosi netta, nessun dubbio: un paio di vertebre cervicali spezzate. Il rischio di rimanere paralizzato in seguito all’urto fu altissimo, eppure Bert riuscì non solo a cavarsela, ma addirittura a concludere l’incontro.

Dovunque io vada le persone mi chiedono del mio collo: se faccio movimenti bruschi mi fa ancora male. Il dottore mi disse che sarei potuto morire, o quantomeno restare paralizzato. La gente cominciò a definirmi “eroe”, ma se avessi saputo di avere il collo rotto non avrei certo finito la partita. Mi sarei precipitato in ospedale.

Trautmann ricorda il giorno in cui tutto sarebbe potuto cambiare – The Guardian, 2010

Trautmann dopo il ritiro

Appena un mese dopo la finale sopracitata, Bert dovette far fronte alla tragedia occorsa al figlio John – di appena sei anni – morto investito. Fu dura riprendersi, ma il club rimase al suo fianco. Appesi i guanti al chiodo, conseguì il patentino da allenatore, destreggiandosi prima in quarta divisione inglese e poi in cadetteria tedesca. In un’epoca in cui gli stipendi erano ben distanti dalle cifre mostruose raggiunte oggigiorno, non devono stupire le difficoltà economiche che dovette affrontare.

Nel 2019 è uscito il film su Trautmann

In suo soccorso intervennero la Federazione e il Ministero degli Esteri tedeschi, che lo invitarono a considerare l’idea di recarsi in paesi in cui il calcio era tutt’altro che sviluppato per fornire il proprio contributo. Birmania, Tanzania, Liberia, Pakistan e Yemen le sue tappe, tra 1972 e 1988, quando decise di trasferirsi a Valencia. Proprio qui, dopo essersi sposato per la terza volta, morì nel 2013. Una vita segnata da numerose tragedie, ma durante la quale Bert riuscì a trovare la forza di rialzarsi e andare avanti.

Viaggiare è la migliore educazione, ci insegna comprensione e tolleranza, quelle che ho trovato in Inghilterra. È per questo che non vogliamo mai più un’altra Guerra Mondiale, non deve assolutamente accadere. Io ho buttato la Croce di Ferro ottenuta in battaglia, non voglio più avere niente a che fare con quel periodo.

Trautmann si fa ambasciatore per la pace

Divenuto un’icona del calcio, Bert si adoperò molto per favorire la pace e per essere portavoce delle sciagure portate dai conflitti. Un impegno che gli valse la nomina nel 1997 ad ufficiale dell’Ordine al merito di Germania e nel 2004 ad ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per aver migliorato le relazioni tra i due paesi.

Bert Trautmann è la prova che dagli errori si può imparare. Campione di calcio, campione di vita.


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Immagine di copertina realizzata da PSM Sport, base tratta da: Profilo Twitter @TheSportsman

Di Matteo Giribaldi

Nasco a Genova il 22 aprile del 2000. A calcio non so giocare, così provo ad arbitrarlo e a raccontarlo. Potete trovarmi sveglio alle 3, mentre cerco che fine abbia fatto 'El Malaka' Martinez.

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